Della condivisione ovvero dell’annullare le distanze

 

rubrica, l’autore racconta

Di tutte le parti del discorso che la grammatica ci insegna, i pronomi personali sono dispositivi capaci di riassumere in una, al massimo due sillabe ciò che determina una persona cara, oppure figure appena intraviste e solo sognate, lungo i marciapiedi, in biblioteca. Sillabe che rendono anonimo il nostro essere nel mondo: privati di un nome specifico ci affidiamo alla lungimiranza di qualcosa che appartiene a tutti. In quell’io o tu, o loro, per quei sottili referenti passa la nostra intera umanità, nella pratica delle relazioni. Nel pronome quasi si annullano le distanze da ciò che pure, individuando, essi stessi stabiliscono: è più facile confondere un tu con se stessi, se togliamo il nome alla persona di cui si tratta. Continuando nell’iperbole, tutto diviene emanazione dell’io, di quel soggetto che parla. E questo è il compito della poesia: annullare le distanze. Non si tratta qui di analogie o metafore o similitudini, ma di una condizione strenua dell’essere in condivisione. Una condivisione profonda, capace pure nell’astrazione di toccare note simili alla fratellanza, alla predisposizione di un destino comune. Così ho pensato che fosse possibile applicare questa logica di referenzialità naturale e istintiva – di condivisione, appunto – al trattamento delle immagini che si può fare in poesia, tramite una sorta di magnetismo emotivo che collaziona nel testo indizi diversi con lo stato dello scrivente. Non più l’occasione, dunque, ma il riflesso della meditazione: forme di una ragionevolezza che viene fermata dal ritmo sulla pagina, priva – o solo secondariamente accesa – di istinto. Non c’è niente di innato, non c’è nessuna apparenza che risulti innecessaria a quanto si ha da dire. Tutto, proprio tutto può diventare correlativo oggettivo o, meglio, correlativo soggettivo all’interno di un enunciato: non bisogna dimenticare infatti quella grande facoltà di scelta che ci è data per natura. Nella scelta noi operiamo un atto che comunque a noi si riferisce, avvicinando nome a cosa per via di una implicazione emotiva. Una ragione emotiva, dunque, più che un pensiero strutturato e filosofico. D’altra parte viviamo nei tempi della super-informazione, e solo una ragione può guidarci nel mettere a fuoco l’oggetto di un possibile interesse. E questo, molto spesso, coincide ancora con la vita.

Da qui possiamo prendere le mosse per tornare indietro, al punto di partenza. A quando in maniera prepotente la poesia è entrata nella mia vita, forse piuttosto tardi, nel periodo post-adolescenziale, forse negli anni dell’università: in quegli anni riconosco qualcosa che ora percepisco come attaccamento alla poesia. Prima c’era qualcosa di più simile a un attaccamento spasmodico, quasi un senso di rivalsa sul mondo, poi è subentrata la consapevolezza. Una dote che dovrebbe ancora oggi essere, se non discriminante, almeno certa nella proposizione della – si perdonerà il bisticcio – propria individualità. Consapevolezza dei mezzi e degli strumenti, unita a certa responsabilità. Ora però quest’ultimo concetto potrebbe portarci lontano. Qui rimaniamo intorno ai fondamentali: in particolare, la lettura. È stato necessario leggere di tutto, perché nella specificità e nell’idiotismo di ciascun linguaggio – dall’opera di ogni autore della nostra ampia, ondivaga tradizione tardonovecentesca, ebbene, da ciascuno è stato possibile trarre un insegnamento, entrando a stretto contatto con i testi, con la loro nuda realtà. Potrei citare poli estremi e latitudini apparentemente inconciliabili: da Amelia Rosselli a Edorado Cacciatore, passando per il Raboni delle Canzonette mortali al Giudici di Salutz e Eresia della sera, da Un posto di vacanza di Sereni a certe pagine di Szymborska, e poi i simbolisti francesi, Cucchi, De Angelis, Frabotta, Buffoni, Anedda, ma anche Mariano Baino e certo Sanguineti, Pagliarani e Emilio Villa. Presenze in alcuni casi determinanti, in uno scambio ordinato e mai soggetto a prevaricazione. In questo senso dovrei ricordare almeno altri poeti che mi hanno aiutato nel progressivo crescere, da Elio Pecora a Roberto Deidier ad Anna Cascella Luciani, con un debito – e non solo mio. Ma potrei anche ricordare anche Patrizia Valduga, Cristina Annino e Jolanda Insana.

Chiudendo brevemente il cerchio, in virtù di ogni ragione che si nasconde dietro a un nome, quando si è trattato di mettere insieme il libro da poco uscito per l’editore Interlinea, Pronomi personali, nella collana Lyra giovani diretta da Franco Buffoni, tutte le forze in campo sono state decisive: da una parte la possibilità di un progetto unitario, che conservasse per intero traccia di una riflessione – oltre a quella sulle immagini e sul ritmo – sul concetto di eredità, come passaggio di un testimone umano di generazione in generazione. E, quindi, la messa in atto di quella che, attraverso le letture, col tempo, era diventata, è diventata la mia eredità: nessun dogma, nessun precetto, soltanto l’aver ascoltato e il tentativo di ascoltare ancora una volta di più le voci che infittiscono la quotidianità. Forse rendendola meno leggera. Magari figurando in maniera chiara un paradigma di pensiero complesso. Certamente in profondità. Senza mai disgiungere dalla vita l’ipostasi benefica di un artigianato che dalla forma cerca di esportare, nell’ipotesi maggiore, una quantità sufficiente di senso.

tre poesie da Pronomi personali, Interlinea 2017

doveva riprendere prima o poi
l’usanza di mandarci cartoline
o forse codici, messaggi più sottili
quando il tempo affonda
e nessuno torna per nessuno.
un rigo appena per finalmente dire
che molto più ci sopravvive
quel saluto giunto da lontano,
che va tutto bene, che la vita
piano piano diviene da sola
un gesto inutile nell’aria.

*

*

sul concetto di nitore bisogna ancora
riflettere perché we know what to do
but we do not do, amico mio, perché
la proposta di una vita più gentile
non è modesta, né passibile di lodi:
bisogna almeno che una neve spezzi
la corteccia dura del cardo,
che svuoti di dentro l’amarezza, la cruda
presunzione di reato…

*

*

anonima luce di sospetto, anodina
presenza e turbamento degli occhi,
la giostra degli affetti si è spenta
con qualche refuso nei framezzi,
tra dosi continue di cortisone
e acqua, nel tuo gonfiare beffardo,
beffardo rospo, «sono gonfiata
come un rospo», dicevi, più beffarda tu
della luce calda che spariva
lenta
dal corpo.

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