(quarto capitolo, “Dell’apparenza immediata della carne, della decadenza del mondo, della mediatica scelleratezza”, del saggio inedito, “Il bello è brutto, il brutto è bello: il nuovo mondo.” di Dario Matteo Gargano)
Tutto è immagine. Tutto è apparenza. La carne è l’apparenza immediata a cui i sensi umani vengono esposti, essa è la forma di tutto il visivo, l’essenza totale del mondo agli occhi dell’uomo. San Juan de La Cruz, sontuoso principe della mistica spagnola, aveva tracciato una triade per raffigurare il mondo: CARNE-MONDO-DECADENZA. Anche Platone, prima dell’avvento di tutta la cultura moderna, ha mostrato come l’idea somma, l’incorporeo, cioè l’iperuranio è la perfezione, e la materia solo una degenerazione imperfetta del cosiddetto mondo platonico.
Mai quanto adesso, però, la carne è divenuta la determinante del successo di un individuo, e in maggior misura delle rappresentanti del sesso femminile o quelle che vi transitano, per così dire, senza arrivare a certe cacofoniche storture linguistiche ormai di moda per definire ciò che è “femminile”.
Ad aver conquistato la maggior attenzione nel mondo dei social è proprio la ragazza, ancor più la ragazzetta, ma anche la granny, insomma tutto ciò che è femminile o simil-tale e che desta appetito visivo – direi – carnivoro agli occhi della maggioranza dei sempre verminosi rappresentanti del sesso maschile, compresi ragazzi, adultelli e vegliardi che si prostrano all’esibizione continua e costante della carne femminile così prontamente esposta su ogni profilo social da quando l’immagine è divenuta unica valvola di sfogo per la propria vanità.
L’appetito per la carne non è un crimine di per sé: è piuttosto un desiderio che va coltivato in un regno dove l’arte dell’andare a far l’amore con la carne sia un gioco tutto volto al sublime, non votato al ridicolo e ripetibile tedio quotidiano: in quest’ultimo non si dà orgasmo. È lo spirito il preliminare per l’orgasmo, o più volgarmente la cosiddetta mente.
Dicevo, su Instagram, tantissime di queste esibizioniste di carne senza spirito, bambole di carne vere e proprie, fanno facilissima incetta di migliaia e migliaia di nuovi follower, in maggioranza costituiti – repetita juvant – da una prevedibile masnada di esseri maschili con la bava alla bocca, feticisti nel senso più stretto, voyeur casuali, e ogni altra forma di zerbinaggio maschile tipico di quegli individui con un fallo troppo debolmente sensibile a tali flash mediatici carnei.
Darsi allo zerbinaggio vuoto, genuflettersi gratuitamente alla carne senza alcun sentimento di fondo perseguendo il vuoto del contenitore, il nulla rappresentato dalla esatta controparte femminile. Il simile che attrae il simile. Kierkegaard nel succitato e noto Diario del Seduttore ha consegnato alla cultura europea una verità ben precisa sulla seduzione, sull’uomo, sulla donna, la quale risulta così virtuosa e artistica da farne un’arte sopraffine, come quella che lo stesso Vatsyayana insegna limpidamente in uno dei libri più letti o sfogliati dopo la Bibbia, ovvero il Kamasutra.
Non è forse vero caro psicologo di turno blaterante di verità mal messe e poste? Non è forse vero cara psico-sessuologa dalle labbra da bucaiola pronta a declamare l’ultima verità in tasca in nome di un like o un mi piace? In fondo, la sfortuna dell’essere umano abita ingabbiata in quella smania patologica del voler sentirsi dire ciò che vorrebbe sentirsi dire: da qui nasce la menzogna costante, dalla frattura tra ciò che il mondo è e ciò che non si vorrebbe che si dicesse su come stanno le cose.
Delle sopraffini 64 arti esposte nel Kamasutra – oziosamente mai aperto dai più – nella quotidianità dei rapporti di carne non ne emerge nemmeno una. La poesia: chi coltiva la poesia? Chi sa scrivere una poesia? Chi sa sedurre al tempo dei social? La poesia è un’arte seduttiva prescritta come arte da praticare e affinare, così come descritto nel Kamasutra. Senza contare l’arte del dipingere, l’arte del parlare, e si potrebbero, invero, citare tutte e 64.
Il brutto è bello e il bello è brutto: andando ad indagare con moto critico e sociologico, Instagram è pienissimo di granny, cioè di nonne dalla carne flaccida e fatiscente, molto spesso dal seno prosperoso e badiale (ma non per questo necessariamente sensuale), le quali arrivano ad avere 3 milioni, 2 milioni, o 500 mila follower, a seconda della “fortunata” che si mette in vetrina, in questa vetrina alimentata dagli istinti poco ambiziosi della classe dei seguitori.
Non foss’altro che proprio in questi giorni è emerso come notizia ufficiale che diversi membri della classe dirigente europea, contemperavano la sete di danaro alla ricerca di bucaiole sulle quali investirlo. Non è tanto un banale peccato, semplicemente non v’è arte in un uomo che debba arrivare a pagare una donna per ottenerne un amplesso carnale.
Similmente la donna non possiede anima laddove abbia la magra idea di darsi da vivere facendosi pagare per darsi ad un uomo: certamente è la più grande truffa della storia, architettata sempre a vantaggio della carne femminile. È necessario citare Strindberg o Ovidio in merito?
Non v’è partita. Difficilmente la carne maschile potrà arrivare a costruire le stesse cifre della controparte femminile. La carne femminile per una volontà di natura fattura di più. Ma lo scopo è quello: vendere, vendere, vendere: vendersi, vendersi, vendersi: non s’ha da far altro. È questa la compulsione primaria della società consumistica.
Non è comunque del tutto lucido farsi idee preconcette su quanto il presente sia peggio del passato, perché già Shaskespeare suggella nell’Amleto questa verità essenziale sulla carne umana, nel famoso soliloquio, all’inizio dell’atto terzo, che tutti dovrebbero almeno una volta nella vita aver letto, prima di morire indegni e obnubilati:
Essere o non essere – questa è la domanda.
Se è più nobile per la mente sopportare
Le sassate e le frecce dell’oltraggiosa fortuna
O prendere le armi contro un mare di guai
E, combattendo, finirli. Morire, dormire –
Nient’altro – e con un sonno dire che poniamo
Fine al male del cuore e ai mille
Travagli naturali di cui la carne è erede.
Un’immediatezza così folgorante per definire quanto la carne pesi nell’esistenza umana, quanto essa è generatrice di fortune e sfortune, ma in ultima analisi di soli travagli. La carne è erede di travagli, di dolori. Basta anche un minimo segno per scalfirla con una piccola lama, con la stessa carta, per farla sanguinare, e provare il dolore fisico che essa sottende.
Dalla penna del bardo di Stratford è stata pronunciata per bocca del principe di Elsinore una verità che non ha epoche, e il ruolo della “nuova” donna, sembra destinarsi a quello di colei che per emergere nella vanità di questo mondo deve apparire, con le sue forme, con le sue scollature, con le sue provocazioni del desiderio sessuale maschile o anche omoerotico, attraverso l’apparire in carne, in carne ed ossa, in carne adiposa, in ossa, da fuscella: l’importante è vendersi come bestia al macellaio, quel macellaio che è l’occhio della società.
A scatenare questa dinamica della svendita della propria carne è sempre una reazione e una contro-reazione di vanità. Anche l’uomo – o meglio quanto ne resta della sua scintilla divina morente che tanto era presente in Ulisse, si prostituisce sui social come la peggior cocotte delle calli di Barcellona.
Il mezzo più audace – nel senso più vigliacco del termine – è la foto, la pic, l’istantanea (onde Instagram); è la foto che dovrebbe far parlare di sé, ma che diventa veicolo di una ennesima finzione, di un sembiante filtrato e rifiltrato per ostentare una bugia del proprio essere, del proprio volersi manifestare al mondo, del voler presentarsi alla schiera di esseri umani.
La foto è divenuta il mezzo di accesso al corpo – alla carne – più immediato, la si divora con il visivo, con il vedere, profilo dopo profilo, in un sovraccarico di immagini, fino a rendere satura la stessa sensazione di nobile provocazione che essa ha per natura. Come aveva ben intuito Paracelso: “è la dose che fa il veleno”. In questa macelleria sociale dove il tritacarne inarrestabile fa a pezzi chiunque, tuttavia rimane ancora un nodo da estricare, ed è quel mistero teologico indimostrabile – tutto di sapore tradizionale catto-cristiano – per il quale questo mondo è frutto della caduta, da condannare, da rifuggire in direzione di un regno dei cieli dove si è con Dio, ma poi che cosa succede? Voilà!, ecco la follia: la resurrezione della carne! Non è tanto un paradosso ma una scelleratezza per la quale non si deve avere alcuna fede. Chi condanna la carne, non può prescriverla come ritorno! Per lo meno, i buddhisti, risolvono la questione platonica e cristiana della carne con il Moskha, il non venire più a questo mondo, il porre fine al ciclo delle reincarnazioni. La resurrezione della carne predicata dalla religione cristiana invece è una beffa alla stessa premessa! Il mondo è di carne, esso è un inferno: bene, ritorniamoci con la resurrezione della carnicina!
In fondo, dall’altro lato, non bisogna dimenticare quanto la carne sia un testamento che fuga ogni bisogno irrazionale della fede: di fronte alla palpabilità, quanto senso ha aver fede? Swedenborg, il buddha del nord, ebbe reali visioni e contatti con il mondo superiore da sveglio, e mai da dormiente. Se solo Dio fosse di carne almeno una volta per tutte, quante cose cambierebbero! Oh, ma gli umani in fondo chi sono per poter essere degni di poter accedere e vedere il loro creatore che vuole resuscitarli nella carne dopo averla condannata?
Sono domande che nessuna teologia ha posto, e nessun filosofo – nemmeno Andrea Emo – hanno esaudito.
Ciò che rimane è l’esperienza carnale dell’orgasmo, quello sublime, per coloro che hanno la fortuna di ritrovarsi tra le mani di un “sacerdote” di Eros, colui che conosce anima e corpo da sempre, per sempre. Lacan tuttavia insegnò che la masturbazione è ciò che conta. Ma non vorrei dire se questo è vero fino alla fine.
in copertina Violenza, René Magritte (1945)