Edward Hopper, Nighthawks, 1942, Art Institute of Chicago buiding, Chicago
Edward Hopper, Nighthawks, 1942, Art Institute of Chicago buiding, Chicago

Edward Hopper (1882-1967), uno tra gli artisti americani del secolo scorso più conosciuti ed ammirati, acclamato già in vita dalla critica e dai contemporanei è in mostra a Palazzo Fava a Bologna, fino al 24 luglio, con sessanta opere provenienti dal Whitney Museum of American Art di New York tra oli, acquerelli, carboncini e gessetti che coprono l’intero arco temporale della sua produzione. Pittore insolito che, proprio negli anni in cui sull’onda dell’Avanguardia europea la nuova arte americana sfornava artisti come Jackson Pollock, Willem de Kooning e Mark Rothko, scelse di cimentarsi nell’altra faccia della pittura e raggiunse il successo portando avanti la sua personale ricerca all’interno dell’arte figurativa. A fare la differenza non è il suo percorso stilistico in cui si riscontra la lezione dei maestri impressionisti, né la sua voyeuristica passione nel dipingere interni domestici con scene stereotipate di un’America degli anni ’20, così come i paesaggi vuoti o semivuoti delle periferie, piuttosto è quel suo modo di concepire le immagini a mascherare tra precisione ed indeterminatezza un obiettivo intenzionale del suo lavoro. Soppesando i vuoti ed i pieni, la luce e le ombre, Hopper definisce uno spazio in cui raduna personaggi destinati ad un silenzio assenso che confermano con la loro muta presenza la loro apparente alienazione o, piuttosto, sanciscono nella loro assenza una presenza apparente. Punta i riflettori, apre il sipario ed insolitamente mette in scena non lo scorrere della vita bensì il fermo immagine: forte l’affinità con il cinema che non a caso da lui ha più volte attinto con lampanti metafore ed eloquenti ispirazioni. Come un regista super partes a cui piace cambiare spesso punto di osservazione e variare gli effetti di luce, Hopper congela diversi attimi del quotidiano facendo “calvinianamente” di essi tanti possibili inizi di storie diverse, fantastici input, e come tutte quelle affascinanti storie che non sono mai iniziate e che sono rimaste in potenza nei nostri pensieri, nelle nostre emozioni, nei nostri accennati trascorsi, così i quadri di Hopper sono destinati a custodire in eterno il fascino immutato del possibile: c’è la donna che al mattino si sveglia da sola sul suo letto dirimpetto alla finestra e rannicchiata guarda fuori; i tre taciturni individui ed un solerte barista che in comune hanno lo stesso bar dalla grande vetrata prospiciente la strada; l’elegante e intrigante signora con cappello assorta in lettura nella cabina di un treno; una giovane donna bionda in bikini blu che, in un’assolata giornata estiva, prende il sole sul balcone di casa, una casa rigorosamente bianca come spesso se ne trovano in Hopper, mentre il suo uomo legge indifferente il giornale. Compartment C, Car 293 (1938), Nighthawks (1942), Morning Sun (1952), Secondy Story Sunlight (1960), questi i titoli dei dipinti a cui si fa cenno, sono proprio alcuni dei quadri per cui Hopper è maggiormente conosciuto ed ammirato, in cui l’allusione alla realtà è più immediata e la narrazione più riuscita. Ma si tratta pur sempre di un’allusione/illusione, perché è Hopper stesso a non parlare di realtà quando afferma di dipingere non ciò che vede ma ciò che prova. Sebbene verosimili i suoi dipinti sono un mezzo, un tramite, testimoni di sentimenti umani palesati dall’artista. Quali che siano i soggetti rappresentati e nell’apparente povertà di contenuto che li caratterizza, essi sono tali da marcare una distanza netta tra lo spazio pittorico e lo spettatore il quale sembra sia addirittura superfluo, accessorio rispetto alla tela, incidentale rispetto a ciò che è dipinto, eppure è proprio a lui che Hopper si rivolge chiedendo di guardare qualcosa che non è visibile nel quadro che deve essere cercato oltre la soglia, oltre quel limite di empatia che esso stesso ha fissato. Per molti questo “quid” coincide con l’espressione di un disagio, di una solitudine esistenziale o solitudine urbana del singolo, sfiducia ed alienazione nei confronti di un’America che, contestualmente agli accadimenti storici, ha perso parte del suo fasto. Personalmente il “quid” a cui mi fa pensare Hopper va oltre la percezione stessa delle immagini e coinvolge l’Arte in generale, e tutte quelle volte che essa ci provoca senza mai svelarsi, amplificando la sua incertezza per apparire inarrivabile ed inscatolabile e, di contro, quando ci priva di questa operazione arricchendo i dipinti di dettagli e simboli via via decifrabili e tali da lasciare, a prima vista, poco o nessuno spazio all’immaginazione. Mi viene allora da pensare che lo stacco tra visibile ed invisibile nella macchinosità del gioco pittorico si avverta per il rotto della cuffia perché davvero i confini sono solo negli occhi di chi osserva e di chi crede che sia sempre bene definire le cose. Ed infine mi viene da pensare al Tempo. Di certo non tempo fisico ma tempo interiore, quello soggettivo, personale, quello che decidiamo solo noi e che corrisponde a Quanto. Quanto tempo ci occorre affinché la “cosa mentale” a cui tutte le opere d’arte, di tutti i tempi, aspirano sia compresa, quanto affinché ci giunga?

Edward Hopper, Second Story Sunlight, 1960, Collezione Privata
Edward Hopper, Second Story Sunlight, 1960, Collezione Privata
Edward Hopper, Morning Sun,1952, Columbus Museum of Modern Art, Ohio
Edward Hopper, Morning Sun,1952, Columbus Museum of Modern Art, Ohio
Edward Hopper, Compartment C, Car, 1938, IBM Corporation, Armonk, New York
Edward Hopper, Compartment C, Car, 1938, IBM Corporation, Armonk, New York

 

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