Eleonora Rimolo, “la poesia è tutto ciò che turba e consola”

«I viali esposti alle luci dei fari/ come lunghi manuali dell’attesa:/ girarci attorno era ridurre il cerchio/ ad un’orma, avere ancora una scelta/ perché con l’ansia indecente del ritorno/ noi dobbiamo vagare,/ dobbiamo tornare/ in cerca della casa originale,/ della prima cellula essenziale.». Versi rivelativi, versi di Eleonora Rimolo (nella foto di Daniele Ferroni) scelti per introdurre la lettura di “La terra originale”, raccolta edita da “LietoColle”, collana “Gialla” a cura di Augusto Pivanti. Fermezza della tessitura stilistica, equilibrio finissimo delle soluzioni metrico-sintattiche, una voce – scrive Giancarlo Pontiggia nella prefazione – che sa dialogare con intelligenza e sensibilità con la grande poesia di ogni tempo, facendola echeggiare nella materia frondosa della propria memoria. Con “ardore enigmatico”, la Rimolo risale il superfluo («questo nostro bisogno di ordine,/ lo strappare la radice e non trovare il seme»), temeraria affonda le mani nell’astro («Sotto la terra danza/ aggressiva diversa la gioia»), si avvicina alle verità essenziali («Andremo via così senza cose,/ non ci muoveremo di un passo»).

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Non ho un ricordo netto della mia prima poesia scritta, ma ho memoria di una piccola filastrocca in versi annotata su un quadernone, intorno ai 6 anni. Della prima poesia letta, invece, ricordo un incontro folgorante in seconda media con la Gerusalemme Liberata, in particolare con i versi relativi al duello tra Tancredi e Clorinda. Fu un misto di fascino, musicalità, desiderio di leggerne ancora.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Il poeta e i versi che non dovremmo mai dimenticare sono quelli che fungono da balsamo per la nostra nima, che ci confortano, che ci scuotono, che ci sconvolgono, che ci tormentano quando li rileggiamo o li ripetiamo nella nostra mente o ad alta voce, associandoli ad un evento o ad un sentire della nostra esperienza.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Sono tanti i testi in cui ho trovato rifugio in questi anni. Solitamente cambiano a seconda delle letture del momento, del periodo che sto vivendo. Oggi vorrei rifugiarmi nella poesia di Marino Moretti, Valigie; in particolare in questi versi:

Voglio cantare tutte l’ore grigie
in questa solitudine pensosa
mentre raduno ogni mia vecchia cosa
a riempir le mie vecchie valigie.
[…]
Dove vado? Non so. Ma mi sovviene
d’averla pur desiderata questa
partenza come, il piccolo, la festa
che col serraglio e con la giostra viene.
Dove, non so. Ma pare a me ch’io debba
vivere senza scopo, allo sbaraglio;
e a tratti con l’inutile bagaglio
partir per i paesi della nebbia…

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
La poesia è tutto ciò che turba e consola: è un’unghia che scava lentamente la superficie delle cose portando alla luce il sangue vivo del nostro sentire, spesso sopito, o atterrito da una realtà vuota, sorda, a tratti violenta.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Quando riesce a sublimare il reale, estraendo dall’oggetto il senso misterioso che esso nasconde, le infinite possibilità della sua forma, e quando sugella un patto emozionale con il lettore, che riconosce se stesso e contemporaneamente l’altro nel verso. La poesia si compie costruendo il suo dedalo dentro il quale smarrirsi diventa esperienza percettiva intensa e ambivalente.

La poesia necessita più di ascolto o di essere ascoltata?
È un procedere parallelo: bisogna ascoltare la poesia per poterla servire – e per poterla scrivere; la finalità è fare in modo che essa venga ascoltata e rimanga in circolo, passando da lettore a lettore, fino a tornare dentro un’altra penna, in una forma diversa.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Fare esperienza del vuoto, confrontarsi con l’abisso, restituire delle immagini più o meno chiare della molteplicità che ci circonda e che ci confonde: tutto sembra troppo, ed è necessario tornare all’essenzialità della parola poetica per riavvicinarsi a tutto ciò che è davvero essenziale nella vita.

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Deve sicuramente riuscire ad esprimersi in maniera tale da poter essere letta, sentita e assorbita da chi vive in questo tempo, e in qualche modo lo subisce. Per questo deve usare un linguaggio adeguato, appropriato, che serva la realtà e che la descriva nella maniera più precisa e tragica possibile.

Per concludere, ti invito a scegliere tre poesie per salutare i nostri lettori.

Rispondendo sempre ad una sete
mi attardavo, era il tuo l’ultimo profilo
inarrestabile, mentre ad uno ad uno
si spegnevano i vicoli e moriva
l’autofficina. Pochi ragazzi e alcuni
operai si nascondevano nelle cucine,
idratavano la gola, poi si concedevano
ore di fantasia, annegavano al telefono
e fuori un altro secolo, un’altra storia,
la preistoria delle voci senza lingua,
senza bugia, la destra immacolata.

*
Sofiya

A Natale non c’è spazio per la cronaca
nessuno legge i giornali, le edicole
sono chiuse: Kreuz und Abend – croce e sera –
il suono che fanno le tracce umide
dei tuoi passi. Domani qualcuno
tenterà di riconoscerle, il fischio
della civetta dirà che sono trascorsi
nove anni dall’inizio dell’inverno
e la distanza tra la bocca e la roccia
gelerà per sempre il nostro naturale
decomporci in schegge di terra.
*
Verrà un giugno accaldato
ed io sarò in qualche maniera
nel nido dove abiti, forse senza
voce, o nuda, ti preparerò la cena,
darò delle briciole di pane
al pigolio dei passerotti
e non dovrò chiederti lì com’è
il tempo, se hai dormito, se
qualcuno ha bussato: arriverò
come un’onda e aggrappata
alle travi mi opporrò alla risacca,
rimarrò senza fare domande
nel silenzio del paese assopito.

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 16 Dicembre 2018, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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