Fabrizio Bajec, “La collaborazione” e l’esperienza conoscitiva della poesia.

“La collaborazione” , Marcos y Marcos, 2018, che funge da titolo e da motivo ricorrente, è qualcosa di acre, in bilico tra sarcasmo sdegnato e rassegnazione di fronte a una sconfitta poiché nella nuova situazione di asservimento che schiaccia o annulla i destini individuali il mondo si presenta quasi esclusivamente “come impresa e sublimazione”, in cui “gli svariati sensi della collaborazione” precipitano in un verso infernale, che fotografa impietoso i nuovi lavoranti: “spingendosi come porci collaborano”. Raccolta dunque politica, nel senso più alto e coraggioso, libro di crudo realismo e riflessione acuminata, in cui Fabrizio Bajec affronta di petto la generale proletarizzazione, e persino l’arretramento contemporaneo alle condizioni ‘iniziali’ del movimento operaio, all’epoca di Germinale, con tutte le conseguenze del caso. “oh voi che ne respirate l’aria / lottate battetevi anche senza vittoria”: così suonano gli ultimi versi di un poemetto, ed è un suono non privo di cupezza, soprattutto se l’epoca delle grandi lotte e delle grandi speranze è alle spalle di tutto questo. Il presente si staglia di fronte a noi come una prigione sconfinata e “il mio avvenire si copre di nebbia e buche”. Con Fabio Pusterla, direttore della collana di poesia “Le ali”, che accoglie “La collaborazione” per introdurre l’intervista all’autore italo-francese Fabrizio Bajec.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Avevo circa nove, dieci anni. C’era questo concorso interno alla scuola elementare del paesino di campagna dove vivevo. Poco prima mi ero fissato su una poesia di un vecchio giapponese, scoperta in un’antologia scolastica. Era fatta di parole semplici e sapeva di pulito. Quando ci chiesero di partecipare, mi ricordai di quei versi e decisi di scrivere qualcosa di simile. Ma pensavo ci volesse tutto un rituale. Allora afferrai una sedia della cameretta, la trascinai fuori casa, in giardino, andai nei campi in cerca di un albero di pesche. Misi la sedia lì sotto. Il sole picchiava e i piedi della sedia affondavano nelle zolle del campo. Mia madre, da lontano, vedendomi agire in quel modo, mi lasciò stare. Seduto, con un taccuino aperto sulle ginocchia, aspettai che accadesse qualcosa. Aspettai molto, e alla fine mi sembrò di strappare con forza ogni parola dalla pagina. Non poteva esserci un atto più volontaristico del mio! Parlai dell’albero, dei fiori, ma il concorso lo vinse una bambina di un’altra classe, la cui poesia era fatta di aggettivi che i bambini di solito non usano; un testo po’ sovraccarico, cosa che dovette piacere molto alla maestre. Credo di essermi detto allora che se avessi dovuto ricominciare un giorno, non avrei usato parole ricercate. Ogni volta che in una poesia (ma anche nella narrativa) trovo piroette stilistiche, barocchismi e astrazioni, volto subito pagina.

Quale (e per quali ragioni) poeta e i relativi versi che non dovremmo mai dimenticare?

Primo Levi nel più atroce momento della sua esistenza si ripeteva a memoria i versi dell’Inferno. Era un modo di non perdere la testa quando lui e gli altri intorno erano destinati a perdere presto la vita. Mi è sembrato fin dai tempi della scuola che la poesia della Commedia permettesse di celebrare l’amore, la morte, e l’amicizia. Con un caro amico, ai tempi dell’università, ci scambiavamo versi del Purgatorio che parlavano di affetto, di stima reciproca. Come si fa a dimenticare un poeta che ci ha accompagnati in un momento così delicato: la formazione del proprio bagaglio culturale, la scoperta degli altri? Per me la Commedia è un libro di incontri: belli, terribili, e indelebili. Confesso di averla riletta in traduzione francese un paio di volte e di averla forse capita meglio (sacrilegio!). Ma questa è un’altra storia.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (altrui) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Non amo più rifugiarmi in un testo poetico. Questo succedeva tra i diciotto e i vent’anni. Soffrendo di insonnia, cambiavo stanza, scendevo al piano terra, con un libro di versi sotto il braccio, che poteva essere di Marina Tsvetaeva, per esempio. E leggevo per calmarmi. Stessa cosa con I fiori del male. Baudelaire era una specie di fratello maggiore. Oggi non saprei proprio indicare uno stralcio in particolare, perché è cambiata l’idea del rifugio. Non so se ho bisogno di rifugiarmi da qualche parte. Ho eventualmente bisogno di sedermi a terra, e non necessariamente sotto un pesco.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Mi ripeterò anche qui. Attualmente non ho una mia definizione di questo genere. Ce l’avevo a vent’anni ed ero molto sicuro di me. Però più passa il tempo, e meno so cosa sia la poesia. Siccome non mi va di riprendere definizioni altrui, alcune delle quali sono anche suggestive (come quella di Gottfried Benn), mi verrebbe piuttosto da dire che quando cercavo una definizione della poesia buona per me, era l’epoca in cui scrivevo poesie fragili, per non dire brutte. Ecco, penso che chi ha un’idea precisa e facilmente formulabile di cosa sia la poesia (una teoria), è in una posizione di fragilità rispetto alle poesie che gli verranno fuori; molto al di sotto delle sue ambizioni. Dicendo questo, naturalmente, penso che la poesia sia anzitutto un’arte, al pari della pittura, del romanzo, e come ogni arte, è fatta di ispirazione e lavoro. Sicuramente per me non è un totem, né una maniera di vivere la vita o guardare il mondo. Perché in quel caso, parlerei piuttosto di “contemplazione”, un’attività da opporre al lavoro salariato e alle costrizioni della vita moderna. Non un lusso, ma una necessità. Forse all’interno della contemplazione, come momento privilegiato dell’esistenza, c’è anche spazio per la creazione poetica. Ed essendo a contatto con il linguaggio, si ha l’occasione di fare un’esperienza conoscitiva: prima, durante, e dopo la redazione del testo.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Posso dire che una poesia è compiuta quando non ho più voglia di tagliare nulla, anche dopo la sua pubblicazione. E sottolineo quest’ultimo punto. È quello il momento di verifica. Se decido di ritoccarla una volta che è uscita in volume o su una rivista, vuol dire che era in fondo insoddisfacente. La cosa buffa è che possono passare anni prima che una poesia sia davvero compiuta. Per fortuna non accade sempre, anzi, sono casi rari. Ma di certo non considero compiute delle poesie rimaste in un file, mai stampate. È forse la carta che decide. La carta verifica, mette alla prova il componimento. Capisco benissimo perché Amelia Rosselli le battesse a macchina e usasse poco o per niente la penna. Si risparmiava un passaggio. Un passaggio che oggi includiamo sempre nel procedimento, quasi tutti.

La poesia necessita più di ascolto o di essere ascoltata?

Ho qualche problema con questa domanda. La poesia non è una persona o un’entità soprannaturale, un fantasma. Bisogna leggerla perché nobilita l’uomo, oltre che arricchirlo. Se parliamo ancora di un genere letterario, certo bisogna saper accogliere ciò che si manifesta. In francese c’è una differenza tra il verbo écouter (ascoltare con attenzione, fare uno sforzo) e entendre (udire per caso, perché non si può fare a meno di percepire quel suono o rumore. Dato che si tratta di parole, direi che ci troviamo più spesso nella seconda situazione. Diciamo a noi stessi: «hai sentito?» E sappiamo bene cosa abbiamo sentito. Lasciamo quindi che la serie di parole si srotoli. Una volta un poeta con più esperienza di me (Paolo Febbraro) mi invitò a « fidarmi di più della poesia ». Preferisco parlare di un atto di fiducia, invece che di un ascolto. Ma è una condizione di fiducia che si realizza con tutto il corpo, non solo con l’orecchio. Allora si costruisce un discorso, quasi da solo, che in realtà non vuole convincere nessuno, ma può essere molto persuasivo. Quindi: fiducia, e non credenza, o superstizione. Fiducia nelle parole che si impongono allo scrivente e che vengono un po’ da tutte le parti.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Il fatto che nella domanda vi siano delle parentesi, implica che non si è poi tanto sicuri di questo incarico. Per me è una parola che viene dal mondo del lavoro o dell’amministrazione, e allora già non ha nulla a che vedere con la poesia. Neanche chi la scrive ha un incarico, oltre a quelli che riceve nella sua vita professionale, o se una persona vicina gli affida un compito preciso, richiesto come favore. Già nella parola incarico c’è la nozione di un peso. Si mette un carico sulle spalle di qualcuno. Ma la poesia, di per sé, non ha pesi che debba sobbarcarsi. Oggi, poi, sarebbe da ridere, visto che è incomprensibile ai più. Semmai il poeta ha il dovere di compiere il suo esercizio nel modo più accurato possibile, specie in previsione di una pubblicazione (seconda tappa, per altro non obbligatoria). So che alcuni autori ritengono che la loro poesia debba fare qualcosa, agire in un certo modo, incidere sulle coscienze, sul tempo ecc. Altri pensano di doversi ritagliare un posto nel paesaggio letterario e concorrere non solo con i vivi, perfino con la poesia degli autori defunti. C’è sempre qualcosa di utilitaristico. Io non so che scopo abbia la poesia.

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?

Se penso a quanti stilemi diversi sono nati, a quante tradizioni hanno originato un repertorio variegato, in linea con un dato contesto culturale, è evidente che no, non c’è quest’obbligo. In un certo paese, in un certo momento storico, va bene scrivere come Luzi, e in un altro ambiente forse non andrebbe bene, sarebbe comico. Ogni lingua ha il suo sistema letterario che può essere più o meno tollerante con una produzione singolare. Nessuno nel 2019 scrive come Caproni, esattamente come lui. Magari viene da quel tipo di lettura, da quella sensibilità. Ma ogni lingua letteraria (desueta o meno) è contemporanea alle altre, per il semplice fatto che nasce oggi. Ammetto di essere più in sintonia con poeti che scrivono chiaro, che non usano metafore o perifrasi strampalate, accostamenti che non stanno né in cielo né in terra. Ho un problema con la tradizione surrealista (nelle sue varie declinazioni), per essere più preciso. Ma non mi sognerei mai di dire: «la poesia non deve essere oscura, non deve farsi inquinare da altri gerghi specialistici, da altri linguaggi». Perché non è neanche detto che una poesia debba “comunicare” qualcosa. Si serve di un idioma per dire ciò che sfugge spesso al proprio autore. È comunicativa per riflesso, non per vocazione. Per questo diciamo che l’essere umano comunica sempre, volente o nolente. Ma affermare che la poesia è comunicazione sarebbe talmente riduttivo. Se davvero ho intenzione di comunicare, scrivo un post, invio a una mail o un sms.

Qual è stato, ad oggi, il più grande insegnamento ricevuto in dono dalla poesia?

Di nuovo, la poesia non fa regali perché non è un donatore in carne ed ossa. E citerò questa volta un poeta (Pasolini) che diceva (così almeno mi è stato riferito): «la poesia non è a gratis!» È semmai esattamente il contrario. Il poeta paga qualcosa, rischia qualcosa, perde qualche cosa quando scrive una lirica, o magari in un altro momento della sua vita, prima o dopo averla scritta. E non c’è niente di romantico in questo ragionamento. Non si fanno vere poesie se va tutto bene, se l’autore non ha un problema di ordine esistenziale con la realtà, anche in termini di coabitazione con gli altri. Ovviamente, più si scrivono poesie, più se ne leggono, più si apprezza la lingua usata (l’italiano o il francese), e più si ha voglia (forse) di leggere a voce alta, più uno dovrebbe saper leggere meglio. Ma non vedo cos’altro io abbia potuto imparare da un’attività solitaria e spesso ingrata. È come esercitarsi su un violino il primo anno di conservatorio. Come se uno ricominciasse sempre da capo, per certi aspetti. C’è del mestiere, per carità, ma anche grossissimi dubbi di fondo. Quello della fiducia è un lungo cammino.

Per concludere, ti invito a scegliere tre poesie dal tuo nuovo libro, “La collaborazione”, per salutare i nostri lettori.

Scelgo tre poesie brevi dalla seconda sezione, Noi.

Gianluca dorme nei palazzi vuoti
col suo diploma in costruzione edile
più tardi su un vagone reclama
un impiego non soldi per fumare
o bere a vent’anni la sua voce
deve recitare tutto il dolore
del mondo

*

Il calcio del fucile percuote la sua bocca
in ginocchio sulla neve
va giù come un muro
lo sguardo fisso rivolto all’interno lei tace
trattiene il sangue nei palmi per non sporcare
lo osserva incredula
                                 Rachele o Eva che importa?

*
Con l’orecchio premuto
al muro del mattatoio
si contano infiniti spari e cadute
la raccolta del sangue a secchi
gli occhi bovini dei macellai
addosso e il silenzio grosso
del timpano scoppiato da poco

Fabrizio Bajec (1975), italo-francese, vive a Parigi e scrive nelle due lingue. È autore dei seguenti libri di versi: Corpo nemico (in «Ottavo quaderno di poesia italiana contemporanea», Marcos y Marcos, 2004), Gli ultimi (Transeuropa, 2009), Entrare nel vuoto (Con-fine, 2011), La cura (Fermenti, 2015), La collaborazione (Marcos y Marcos, 2018). Alcuni in doppia versione e pubblicati in Belgio, Svizzera e Francia. Ha inoltre tradotto in italiano i versi del poeta belga William Cliff: Il pane quotidiano e altre poesie (Edizioni Torino poesia, 2007), Poesie scelte (Fondazione Piazzolla, 2015, Premio Città di Trento Oltre le mura, 2018).

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