Fabrizio Bernini, “la poesia è un’operazione civile”

«Piangeremo. Forse torneremo/ sulle piante, nelle caverne,/ tra i resti delle città sdentate./ Sembreranno lacrime di ferro./ Anche noi saremo la vendetta/ di un figlio nuovo.». Versi di Fabrizio Bernini, scelti per introdurvi alla lettura dell’opera “Il comune salario”, pubblicata da Mondadori, collezione “Lo Specchio”. Versi verticali che, senza scollamenti tra realtà e poesia, planano sul lettore. Rilevano (e “salvano”) la contemporaneità narrata con riconoscibili sensibilità intellettuale e accensioni concettuali («Ho forbici nelle tempie. Catarro sui piaceri.», «Tutte queste mani che lavorano/ e toccano il mio corpo. Tappezzato,/ levigato, ripiallato,/ fino a che la forma si fa oggetto/ universale.», «La pubblicità è già un viaggio o meglio/ l’immagine incalcinata sul pensiero.», «Ma abbiamo miliardi di piccoli spigoli/ che non riusciamo a deglutire.»). Bernini, sovviene Kafka, con i suoi versi trova «un luogo, nella vuota oscurità, dove la luce, senza che prima se ne fosse mai accorto nessuno, si possa ricevere molto intesa».

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Le scuole elementari. Avevo scritto una poesia intitolata “Il minestrone”.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Versi belli di poeti importanti ce ne sono molti. Penso che leggerli sia determinante, poi li si può anche dimenticare, ma resteranno in noi comunque sotto un’altra forma.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Non lo so. E quando leggo che qualcuno prova a definirla mi viene un po’ da ridere.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Una poesia non è mai completamente compiuta. A un certo punto l’accettiamo così com’è.

La poesia, necessita più di ascoltare o di essere ascoltata?
Saper ascoltare è una bella cosa. Ma non è facile.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Credo quello che ha da sempre: un’operazione civile.

Collegandomi ai tuoi (calzanti) versi, “Le persone che ho visto/ oggi hanno tutte una morte sola.”, la poesia può resuscitarci? Potendo, in che modo?
La questione della resurrezione per noi è un po’ complessa. Più che risorgere direi che può aiutarci a sopravvivere.

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Certo, nessuna poesia è slegata dal linguaggio contemporaneo. Anche se poi l’operazione sulla pagina è quello di capire come utilizzarlo.

“Il comune salario”, è forse un omaggio a Dylan Thomas?
Sì, il titolo è ricavato dalla poesia “Nella mia arte scontrosa o mestiere” di Dylan Thomas, e mi erano piaciuti molto i versi “Ma per il comune salario/ Del loro più intimo cuore.” Mi sembravano molto belli non solo perché sottintendono all’intento poetico dell’autore, ma anche perché mi facevano pensare che siamo tutti, scrittori e lettori, non scrittori e non lettori, dentro un’esistenza comune, e percepiamo, nel bene e nel male, un salario in termini di gioie e dolori. Poi io l’ho mutuato all’interno della mia storia personale, delle mie origini famigliari e storiche.

Cosa ha spinto la scelta di articolare il tuo libro in quattro sezioni, tre delle quali con “altrettanti personaggi d’invenzione”, donandoci, in un mondo in cui «Tutto appare nell’apparenza senza apparire mai.», la cosiddetta verità della menzogna?
La prima parte del libro è praticamente un lavoro che io finii quindici anni fa, in sé concluso. Tre personaggi costruiti in riferimento a un periodo della mia vita nel quale sentivo la spinta a una specie di sintesi di ciò che avevo percepito intorno a me. Quei personaggi, sorta di stereotipi o manichini coscienti, sono il tentativo di scoperchiare un vuoto che spesso l’uomo avverte come stonato rispetto ai propri bisogni o desideri reali. L’ultima parte è invece più vicina a noi nel tempo, e mi piaceva riportare l’idea del soggetto qualunque, comune, alla sua accezione più umana, sincera e valorizzante, in un’epoca in cui la falsa eccezionalità viene vista come l’unica possibilità di pensarsi esistenti.

Per concludere, due poesie per salutare i nostri lettori.

Ci arrivo che il venerdì si è trainato la noia,
il disuso della settimana. Nel locale
c’è già il resto. Vicino al bancone mi fanno
luce le palpebre, i bottoni attenti, le unghie
fin dentro le scarpe. Comincio a comprimere
nel bicchiere la parlantina del dopo.
Me la passano al bagno in una carta stagnola
ed io sono più svelto dei soldi che pago.

Pochi impegni. Devo passare in lavanderia,
al supermercato, riportare alle cose il posto
che gli è concesso. Poi mia nonna dal dottore.
Tutto si rifà movimento, elementare intreccio
dove tutti approdano, premono, si avvinghiano
nella parte più prossima e tangente
di questa universale e remotissima
intersezione degli insiemi.

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 2 Dicembre 2018, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

Potrebbero interessarti