“Fare poesia è incidere una voce nei minerali del possibile”. Francesco Ottonello e il suo “Isola aperta”

tre domande, tre poesie

 

Francesco Ottonello (1993), laureato in Let­teratura Greca a Cagliari e Letteratura Latina a Milano, attualmente è dottorando di ricerca in Studi Umanistici Transculturali presso l’Università degli Studi di Bergamo. Suoi articoli e recensioni sono usciti in varie riviste quali «ACME», «L’Ulisse», «l’immaginazione», «Atelier», «OBLIO» e sue poesie su «Repubblica», «Nuovi Argomenti», «Nazione indiana» etc. Ha pubblicato la monografia Pasolini traduttore di Eschilo (Grin 2018), il libro di poesia Isola Aperta (Interno Poesia 2020) con una prefazione di Tommaso Di Dio. È presente nell’antologia I poeti nati negli anni Ottanta e Novanta a cura di Giulia Martini (Interno Poesia 2019-2020), in La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia a cura di Giorgiomaria Cornelio (Argolibri 2021), in Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete a cura di Alma Poesia (Puntoacapo Editrice 2021) e in Queerfobia. Racconti, poesie e immagini di odio quotidiano a cura di Giorgio Ghibaudo e Gianluca Polastri (D editore 2021). Sue poesie sono state tradotte in portoghese, spagnolo e inglese. Il suo secondo libro di poesia, Futuro remoto, con una prefazione di Paolo Giovannetti, è in uscita nel Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2021), a cura di Franco Buffoni. Ha recitato nel film Il rosa nudo (2013) di Giovanni Coda e in vari spettacoli teatrali. Ha fondato e dirige www.mediumpoesia.com.

Qual è o quale dovrebbe essere (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica e in che modo la vita diventa linguaggio?

“La poesia non deve”, così ho intitolato un mio intervento di poetica, uscito per La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia (Argolibri 2021). Il curatore, Giorgiomaria Cornelio, poneva a un nutrito gruppo di poeti di varie generazioni una serie di interrogativi, chiedendosi e chiedendoci se fosse ancora legittima nel contemporaneo la scrittura poetica e dove potessimo rintracciarvi l’origine. Quello che intendo con “la poesia non deve” è che la poesia per me si situa al di là del mondo della legge, la poesia non è legittima né illegittima. Se, da una parte, non può essere ingenuamente (o arrogantemente) una parola divina – rifuggiamo da certi esili miti nel 2021 – dall’altra, nemmeno può essere la parola del chiacchiericcio, das Geschwätz, di celaniana memoria. Posso dire, dunque, non quello che dovrebbe essere idealmente la unica monolitica lingua della poesia, che alcuni poeti-legislatori vorrebbero definire in un recinto e insegnare costrittivamente, ma quello che sento essere la possibilità di educarsi alla poesia e poi semmai fare poesia. Le lingue della poesia che amo, nella loro diversità – rifuggiamo ogni binarismo, quale avanguardia e retroguardia – ho notato che hanno a che fare sempre con una condizione di soglia, con un posizionamento che parrebbe ossimorico e che chiamerei di “futuro remoto”. La voce poetica autentica ricerca, attingendo da varie tradizioni, una sua forma, per fissarsi in un suo punto remoto e al contempo potersi riprodurre in un futuro, sperando nella possibilità di lettura dell’altro. Per comunicarsi, attraversando lo spaziotempo, la poesia si compatta come una pietra che cela all’interno la sua vita (criptiobiolite) e solo un altro, prendendola in mano, la potrebbe scagliare per rendere questa voce vivificata (nel migliore dei casi). Per me, fare poesia è incidere una voce nei minerali del possibile, con un nesso sia con il vigore dell’incisione della graphía sia con la fluidità della modulazione della phonéPer usare due espressioni della poesia in lingua sarda, la poesia che provo a dire è a bolu (al volo) e a taulinu (a tavolino) al contempo, ed è fatta di accensioni e stratificazioni: è un Italiano in cui irrompe il Latino, con la forza del padre sul figlio, che subisce poi la pressione sotterranea della più antica sorella illegittima, la Limba Sarda, soppressa storicamente; e poi tutti gli smottamenti di parenti più o meno lontani nel tempo, vivi o morti che siano. La lingua che provo a dire viene, dunque, da un “archeoscavo di forza” e da un “transmembramento del canto”, è un italiano che ritraduco spesso da altri italiani e varie lingue moderne o antiche. Per fare un esempio, il verso “sgretolato il frutto di tutto il volere” nasce dal composto sanscrito sarva-karma-phala-tyågaṁ (Bhagavadgītā xviii 2), ovvero “rinuncia al frutto di tutte le azioni”. Alcuni versi vengono, oltre che da esperienze extralinguistiche personali (sperimentazione “nella vita”), da versi di poeti latini, inglesi, greci e così via. La lingua poetica – proprio a seguito di questo archeoscavo individuale – può tendere allo slancio verso il futuribile, restando viva proprio perché è stata immortalata nella possibilità di una riproduzione. Questo forse è il senso della lingua di Isola aperta, ma soprattutto di Futuro remoto (in uscita nel XV Quaderno italiano di poesia contemporanea Marcos y Marcos a cura di Franco Buffoni).

 La poesia è tale se diventa portatrice di una visione che non è individuale (bensì sovraindividuale); qual è la tua opinione in merito?

La poesia per me nasce da un’isola, dove ogni poeta sta e ogni artista genera, e per essere autentica – ovvero reggersi da sé – ha bisogno di una lunga e intensa frequentazione del proprio “punto piccolo”. Per potere condividere una visione bisogna stabilire un punto di osservazione, raggiungere una prospettiva dopo avere esplorato i propri mostri, per convertirli e renderli poi, semmai, partecipi dell’altro, in un “sogno di arcipelago”: la comunicazione. La poesia autentica non è mai espressione del proprio dolore, per me la poesia è una risposta al dolore. Certamente l’isola di un vero poeta non può che essere un’isola aperta, che si ferisce, si dilacera, per esistere ancora. La poesia non può riprodursi se gli individui che vorrebbero tendere all’incontro non hanno prima imparato a “stare nella” e “essere” la loro isola, accettarne il deserto e da lì una possibilità di mondo ulteriore.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo “Isola aperta” – Interno Poesia 2020 – (perché questo titolo?); di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Non insisto oltre sul titolo del libro. Mi limito a sottolineare che la genesi delle poesie di Isola aperta è plurima. Quasi sempre i testi hanno avuto tante nascite e tante morti e si sono formati in seguito a processi di censure, rimozioni, distruzioni, riaggregazioni di “isole testuali”, frammenti di testo scritti spesso in momenti e luoghi distanti e poi messi in comunicazione da un trattino – che rappresenta il mare, che unisce e separa. A dimostrazione di ciò, scelgo di proporre tre testi di Isola aperta con delle varianti, nella forma con cui appariranno in Futuro remotoProvando a dire qualcosa di più specifico sulla genesi di uno dei tre testi, potrei raccontare di come il secondo sia nato dalla sperimentazione diretta dei luoghi, le tombe dei giganti, monumenti costituiti da sepolture collettive appartenenti all’età nuragica (II millennio a. C.). Come ho scoperto in seguito, a esse sarebbe legato un rito di incubatio, con un sonno profondo atto a placare le proprie ossessioni (descritto già da Aristotele, Fis., IV, 11, studiato da R. Pettazzoni in La religione primitiva in Sardegna e K. Kerényi in Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna). Costruzioni con pietre di vario taglio giustapposte a dare forma a architetture reali e al contempo con un forte connotato simbolico, così come i pozzi sacri e i nuraghi, tenendo conto degli astri celesti e delle forze geomagnetiche e idrogeologiche del sottosuolo, in rapporto a fenomeni di luce (sole, luna, stelle). Ad esempio, è straordinario per me stare in una tomba dei giganti al tramonto, perché la luce del sole ne bagna la struttura, che può ricordare una protome taurina (simbolo maschile) e al contempo una vagina. La poesia si apre però con un verso (in it. “così com’era sem­pre tornerà”) che è un capovolgimento di a sicut erat / non torrat mai (“così com’era non torna più”) del testo A Nanni Sulis (I), in Poesias de Giuseppe Mereu (1899). Ancora, sos berbos ’e sos berbos (“i verbi dei verbi”) si riferisce a un altro aspetto della cultura sarda, infatti non indicano “le parole” del linguaggio umano quotidiano (paràulas), ma quelle magiche dei rituali, parole fatte per generare, con un po­tere effettivo sulla realtà. Parole che forse non esistono più o non sono mai esistite, ma conservano la stessa tensione dell’australopiteco nell’alzare il piccolo suo verso il cielo, per iniziare a dimenticare o rendere forse possibile the silken skilled transmemberment of song (H. Crane).

 

intendes a mie in te attecchirende

sentimi attechire in te
questo abile transmembramento
un archeoscavo di forza, una spinta di orizzonti
per disapprendere tra eoni e galassie
ciò che pensavamo fosse dolore
accettare. ricostruirsi. ricostituire

dare su chi emmo, costruire ’e nou

a sicut erat semper at a torrare

ovunque prende il corpo muti suoni
ripulsano i rizomi dei pianeti
l’astro morente ingurgita i battiti
come se giacessimo lì, addormentati
in sas tumbas de sos gigantes nuovi eroi
incubati noi, guarendo da visioni ininterrotte
svincolati dal tempo appena culmina il sole.
è così che usciamo e incomincia un altro
vociare di verbo, sos berbos ’e sos berbos

lasciamo il giorno controluce nel suono

un tempo l’australopiteco
per ringraziare di una nuova cattura
alzava il piccolo suo verso il cielo
come me non ha memoria del nome

l’angoscia di pietre che si sfasciano
sentirsi soli, tremendamente in bilico
attende il nuovo e gli manca già tutto
l’abbraccio che stenta, non saper morire

il vuoto è un’inutile pretesa di stare
malinconia e manicomio della specie
assenza di ritorni, espansa vita

finirà per ucciderlo e noi ancora
a un albero aggrappati
qui come a un sogno

 

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