Francesco Di Benedetto, “la poesia è un testo traumatico”.

Francesco Di Benedetto (Roma, 1982) – nella foto in copertina di Federica Di Benedetto – si laurea al DAMS con una tesi sul cinema di Matteo Garrone con cui ha vinto, nel 2016, il Premio Filippo Sacchi. Ha pubblicato sei raccolte poetiche: Per non dimenticarmi (Manni, 2018), Lettera a mia madre (Ensemble, 2018), Antonio e Maria Renata (Zona, 2018), Il posto (Ensemble, 2021), Irma 6 maggio 2022 (Ensemble, 2022) e All my loving (Ensemble, 2022). 

 Amando più/ forte delle nostre/ parole:// Partire. Versi scelti per introdurre la nostra intervista. 

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio? 

La “mia” vita diventa linguaggio per sopravvivere. Penso che sia stato un iter inconscio, naturale e necessario. Ho cercato di non ammazzarmi in un periodo di climax psicotico. La psicosi (“disturbo schizoaffettivo di tipo bipolare”) è la mia malattia. Ho scritto sei libri di poesia che sono la mia biografia a metà vita. L’ultimo libro è uscito quando ho compiuto quarant’anni. Questi libri sono dei testi autonomi ma sono insieme la vita che si apre agli occhi di una persona, che è in primis quella dell’autore. La mia visione è una cosa inquietante che non mi dà pace. Il “linguaggio” è una cosa che è nata come un iter inconscio, naturale e necessario perché io potessi non ammazzarmi e il “linguaggio” mi fa male.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile? 

Penso di sì. Ho scritto nel mio primo libro che stava morendo mio padre. L’ho scritto soprattutto a lui perché aveva difficoltà ad affrontare la sua malattia. Quel libro, Per non dimenticarmi, è stato un successo perché ha parlato con mio padre, con cui prima della malattia non parlavo concretamente da anni. Penso che la poesia è la lingua dell’invalicabile perché, per me, è stata la lingua dell’azione. Mi ha stretto a papà cambiando i destini degli ultimi nostri anni. Mi ha stretto alla mia compagna cui ho incominciato a dedicare le mie prime poesie. Io penso che la mia opera sia “un’azione”, cioè un incontro con mio padre e la mia compagna Rachele. Non è una questione elegiaca, perché l’incontro è avvenuto e ha oltrepassato il limite dell’invalicabile cambiando i destini di tutti.

La poesia è vocazione? 

Non lo so proprio dire. Per me è stato un caso. Ho incominciato a scrivere come illetterato, nel senso che non mi ritengo un letterato. Ho scritto fin dall’inizio poesia per necessità, poi la poesia ha preso la forma del primo libro e così via. In un primo periodo mi vergognavo di non conoscere Pascoli e Foscolo. Chiudo il discorso dicendo per me la letteratura è entrata nei miei testi a livello inconscio a partire dal liceo, passando per il cinema, De André e la psicanalisi (sono in terapia da vent’anni).

La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?

Mi sento di dire di no. 

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”? 

Non credo che la poesia debba essere associata per forma ad un suono. I miei primi quattro libri non si “leggono” facilmente salvo qualche frammento. La poesia può essere calligramma, si può disegnare con le parole sulla pagina, come se queste pagine fossero dei gesti. Nella mia idea il mio calligramma implica la cinematica, lo scorrere delle pagine uno dopo l’altra come in un acting cinematografico. Il suono non è la forma necessaria. Riguardo invece alla parola mi sento di dire che mi sento alieno da tutta la poesia dove la parola poetica ha una centralità assertiva che a me non piace.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Nessuna.

Per concludere, salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere 6 tue poesie (ognuna da un tuo libro) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che le ha viste nascere.

Io non riesco a risalire all’origine mentale della mia scrittura della poesia perché la poesia vive dopo ed è un testo traumatico. Il trauma comporta anche la perdita della memoria all’atto che evoca un trauma. Ti riporterò solo una poesia (una prosa) che per me è stata, prima di diventare una poesia, una lettura. Questa lettura, al funerale di mio padre ha avuto la coscienza rituale di unire i tempi. Il passato, il presente e il futuro che non si era ancora espresso. La poesia poi è diventata poesia ed è entrata nel libro Il posto (Ensemble, 2021).

 

Elogio funebre

È brutto raccontare un padre in termini buonisti.
È brutto nei confronti di quello che è stato e sarà per il figlio: per tutto quello che è stato, per lui e insieme a lui.
Sono nato in una famiglia di libri: professori.
L’unico intellettuale della mia famiglia, delle persone che io abbia conosciuto realmente e compiutamente, è stato mio padre.
Gli intellettuali non si scrivono di inchiostro.
Mio padre che non è mai stato un professore, mi ha raccontato cose apparentemente banali, ma che, sostanzialmente, tutti voi rifiutate.
Questo stimolo da traboccare tutti gli assiomi.
Mio padre mi ha insegnato, amandomi, il trauma.
Fu la sua educazione alla vita, alla parola, ai legami, al pensiero.
La sua educazione era fatta di queste cose che non si vogliono guardare.
Sono dimensioni che esistono perché la parola, che è entrata nei libri e nei vostri legami, è la parola di un trauma.
Papà aveva una visione.
Questa visione ha attraversato il tempo e le generazioni e raccontava il desiderio di un uomo.
Non riguardava solo la sua famiglia nucleare, ma lambiva ogni pensiero, ogni legame, ogni parola: cioè, finalmente, ogni desiderio.
Si chiamava Fratelli.

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