Silvia Rosa

Chiamata a riflettere su che cosa sia per me la poesia e sul suo valore nella contemporaneità, sono rimasta muta per giorni. Non mi riusciva di scrivere nulla. Ogni volta che provavo a definire un pensiero, mi pareva che sfuggisse o che smettesse di avere un significato nell’attimo stesso in cui prendeva consistenza. Che fosse abbastanza stupido, anche. Ridondante. Sarà che in fondo penso che, assumendosi la responsabilità di scrivere testi poetici, il proprio orientamento – ciò in cui si crede – sia implicito nella forma e nel contenuto di quello che si è scritto, e che non si debba aggiungere altro, perché ogni parola in più sarebbe superflua. Sarà che continuo a sentirmi in imbarazzo svelando dettagli del mio rapporto con la poesia, come quando si rivela un segreto inconfessabile, nascosto per pudore.

Ma tant’è. Dopo la fase di mutismo ho cercato e riletto alcuni appunti di qualche tempo fa, in cui sostenevo che per me la scrittura poetica è gesto di salvezza e dono (di sé) e può avere una funzione rassicurante e contenitiva: in questo senso le parole sono un argine che protegge dal vuoto, e i versi un cammino che dal centro più autentico di sé si schiude al mondo e allo sguardo dell’Altro, con una richiesta che è al contempo un’offerta di ascolto e di accoglienza. Negli stessi appunti (presi leggendo anche “Ragioni di una poesia” di Ungaretti) avevo scritto poi che la poesia è una particolare modalità di scandagliare il reale, rovesciando il senso comune che lo tiene ingabbiato in certe immagini statiche e ordinarie, e reinterpretandolo. Il linguaggio della poesia attinge, infatti, alla sorgiva potenza della parola e racchiude in sé l’evidenza di ciò che si vuol indicare, nel suo darsi a conoscere come condizionato dai limiti, alludendo al mistero insondabile che attraversa l’essere delle cose e dell’umano: nell’intensità della sua intima e sintetica forma espressiva, la poesia forza dunque il confine di significato di ogni vocabolo dilatandolo verso l’indicibile, gettando ponti tra l’uomo e l’infinito, incarnando il tentativo di elevarsi a un luogo del pensiero che interpreta l’esistenza senza ridurne o cancellarne gli aspetti incomprensibili con l’uso della sola conoscenza razionale.

Non posso dire certo di non condividere più queste osservazioni, anzi, solo che forse non rivelano nulla di me e del mio incontro con la poesia. Per raccontare di quest’incontro dovrei ricorrere al c’era una volta delle fiabe: “c’era una bambina, una volta, che trascorreva ore e ore tra le pagine di un libro, il primo volume di un’enciclopedia per l’infanzia (I Quindici) in voga negli anni Settanta.  In quelle pagine c’erano filastrocche, nenie, poesie, c’era Rodari, ma anche Leopardi e Ungaretti, c’erano immagini incantevoli e un mondo di parole nuove. C’era una bambina, una volta, e sua madre che le leggeva un libro, e la bambina sapeva a memoria ogni filastrocca, nenia, poesia prima ancora di saper leggere e scrivere da sola. C’era una bambina, una volta, sua madre, un libro, poesie e pomeriggi interi di voci che si rincorrevano, c’era una lingua madre che era casa e che dava senso alla realtà e alimentava l’immaginazione[…]”.  Questa fiaba però non ha un lieto fine, e per questo forse ha avuto inizio così presto la mia relazione con la parola poetica, l’unica che sia stata mai in grado di avvicinarsi al dolore della perdita, alla paura, al senso di vuoto e anche all’amore, nominandoli, sapendoli raccontare, dotandoli di un senso. Quella bambina ero io, tre anni circa, e la poesia aveva allora la voce di mia madre, ed è nella pancia che risuona ancora oggi, come qualcosa di irrimediabilmente perduto che continua a esistere in qualche luogo che sono io ed è il mondo fuori, allo stesso tempo. Per me la poesia è viscerale, e non può prescindere da certi accenti intimistici e introspettivi (sottoscrivo a questo proposito la poesia di Nina Cassian: “Io sono io./ Sono personale,/ soggettiva, intima, singolare,/ confessionale./ Tutto quel che mi accade e si ripete/ accade a me./ Il paesaggio che descrivo/ sono io stessa./ Se vi interessano/ gli uccelli, gli alberi, i fiumi,/ consultate i libri degli esperti./ Io non sono un dato uccello,/ un dato albero,/ un dato fiume./ Io sono registrata solo/ come un Sé,// Io, ovvero Io.”), un guardarsi l’ombelico che non è da intendersi banalmente in senso negativo, come mera inclinazione all’autoreferenzialità. L’ombelico è la cicatrice che ci portiamo addosso e sempre ci ricorda la perdita, il distacco da cui la nostra individualità si è originata, la separazione da un corpo altro con cui brevemente abbiamo sperimentato la fusione totalizzante. Io penso alla poesia come a una particolare declinazione dello sguardo rivolto a indagare la propria interiorità – in relazione con l’esterno e con l’Altro – che, nei casi più felici e riusciti (laddove l’io non diventi ipertrofico e sterile), riesce a tradurre e a testimoniare quell’interessante percorso soggettivo di consapevolezza e di autenticità alla ricerca di una dimensione umana condivisa, che si universalizza a partire da un sé fatto a pezzi col bisturi affilato della scrittura e offerto al lettore, in un gioco di specchi nel quale riconoscersi significa salvarsi reciprocamente. La poesia è inattuale e pure attualissima, perché è legata alla dimensione umana più essenziale che da millenni è la medesima (altrimenti non si spiegherebbe perché leggendo i lirici greci ancora ritroviamo qualcosa che dice di noi, donne e uomini immersi nella fluidità dell’epoca post contemporanea), nonostante i cambiamenti che hanno attraversato le diverse società nel tempo e nello spazio, e che si riflettono sul linguaggio adottato, nei contenuti o nei riferimenti al contesto. La poesia accoglie tutte le contraddizioni, le mancanze e gli eccessi, intanto che sfugge all’ennesima de/finizione. Per questo supera l’uomo, il qui e ora, e deborda oltre sé stessa, tanto che a volte quando davvero si ha la fortuna di scrivere un testo che le si avvicina sembra quasi impossibile riconoscerlo come proprio. A me è capitato, di rado, e allora mi sono sentita minuscola, come quella bambina di tre anni che ascoltava la madre raccontarle il mondo con le parole dei grandi poeti, un istante prima che il mondo finisse.

genealogia imperfetta l'estroverso

Sette testi da Genealogia imperfetta (La Vita Felice)

 

GUARDA

Guarda il panorama
dalla tua finestra con gli infissi
in legno profumato, tre punte in fila
di montagna equidistanti
ed un giardino in tinta ammaestrato
intorno a poche case delizia e disciplina
da manuale di buon gusto
che ti fanno tanta meraviglia, silenziose.
 
Guarda alle pareti rosso impero e
crema e tortora finemente decorate
le tele di una mostra che celebra
la guerra l’amore dio in croce la morte
scenografica di una vergine
in un cimitero di museo, l’ennesimo,
tutto lindo, quasi rarefatto, sterile.
 
Guarda il tuo corpo, ora,
sorvegliato a vista metà carne
da macello metà opera d’arte cesellata
da un’estetica santa religione, così
bene addobbato, un alberello
di Natale finto carico di doni
per gli invitati di una festa deserta,
un palo di scopa dritto contro il vuoto
con al centro una falla, un difetto imperdonabile
una specie di piccola culla vuota
della misura esatta, non un centimetro oltre,
di quel buco d’ombelico dove guardi
guardi guardi da quando ne hai memoria,
tutto quanto ti circonda e non ti riesce
di sfiorare, tutta questa vita la tua
esistenza come un chiodo da scacciare via.
 
MI COLANO GLI OCCHI

Mi colano gli occhi
in questa tazza di caffè amaro,
gli occhi con tutte le parole
che dicono occhi e tazza e caffè amaro,
con tutte e due le mani
che stringono la tazza e sfiorano le labbra
e vedono nel nero liquido di quest’alba
gli occhi galleggiare come due pesci morti
in una pozza d’acqua sporca,
e la bocca appesa al bordo della tazza
si affaccia al vuoto e inghiotte nero
alba mani e occhi, e quando inghiotte
gli occhi, tace.
 
MA LE MANI

ma le mani sono grilli pensieri
che saltano inquieti
sono una farfalla che trema le ali
sono un ventaglio morbido che mi nascondo
e tu non mi vedi
e tu mi vieni a cercare
ma le mani cantano la filastrocca
del pollice che aveva fame e del mignolo
che resta senza mangiare
e nella piazza c’è una volpe pazza
e sentieri in cui inciampano gli occhi
ma le mani sono aquiloni
che sfiorano questo cielo di attese
che piovono fredde sui vetri
e tu non mi vedi
e tu non mi vieni a cercare.
 
OTTOBRE

E per un bosco qualunque, andare,
nel pantano di foglie d’ocra
ricamate a nebbia e a vene leggere
che sotto le scarpe si irruvidiscono,
di foglie amaranto labbra avvizzite
che si stringono chiuse in un grumo di orme,
cadono avverbi di tempo dagli alberi spogli
e all’appello mancano virgole e pause e,
quante ore poi lungo un sentiero brullo
– senza parole – e le tue mani immaginate
in carezze e tra le ciglia il grigio dei sassi lustri
di nuvole, perdere il senso del cammino
se oltre il cespuglio di rovi non si rivela
lo sguardo perfetto che sanno i tuoi occhi,
due nocciole scure nel segreto dei polsi
che scivolano via, e tu che manchi
a ogni passo tu che sei ovunque – ottobre
il mese di pioggia e di terra verde di resa
tu che sei corsa e riposo tu che sei
tra le costole respiro vertigine spina,
l’imprevisto ritorno a. 
 
UN PICCOLO BOTTONE ROSSO

Se questa rabbia fosse tutta
un piccolo bottone rosso:
potessi prenderlo tra le dita tirare forte
sentire il filo di cotone che scivola via
come erba secca, potessi sostenere
tutto nello sguardo il vuoto che sprofonda
fino al cuore dall’asola scoperta
e con le dita piano cercare un battito
uno solamente, sentire che la fine
si allenta come una camicia aperta
cade a terra e di colpo io non ho più freddo,
potessi cadere a terra anch’io – erba cotone
filo stretto – gli occhi due bottoni appesi
a ciò che resta, potessi prenderli tra le dita
e dirti indossali, e adesso guardami con quelli,
nuda come non mi hai mai vista.
 
RITORNO

Questo correre, come da bambina,
per scappare alle ombre – alla mia,
che mi segue appena –: gli alberi qui
sono presenze ordinate in fila soldatini
fischi silenziosi che arrivano dritti al cielo
e parlano ai corvi che vanno e vengono,
cinquecento passi insieme a tutte le foglie
morte del viale, la casa gialla al fondo,
due cani che fissano quell’ombra dietro
alla mia schiena, ed io che vedo di lontano
solo il ritorno, in direzione opposta,
dall’altra parte della strada.
 
MANIFESTO (CHE NON MI PIACE)

Non mi piace la musica classica
(lo so, è grave)
e le mani indecise fredde di quegli uomini
che si sono inghiottiti a forza
il manuale tascabile del gran seduttore
e t’accarezzano ti toccano
chiedendo ti piace?
ad ogni gesto che muovono incerto
fra le cosce frugandoti rapaci.
 
Dicevo: non mi piace la musica classica
(è imperdonabile, chiaro)
e gli sguardi accartocciati fra i seni
che ricadono come per caso implodono
insistenti al centro delle natiche
– un’esecuzione prevedibile, maestro –
non mi piace il pretesto delle voglie
a buon mercato da soddisfare
i corpi svestiti d’amore che si scambiano
lacrime biologiche e sudore e il feticcio
di piccole morti squallide meccaniche.

Non mi piace la musica senza parole
(mea culpa, ma non so che farci)
e anche i silenzi prolungati ininterrotti
e lo sfregare ruvido della pelle
contro il vuoto di occhi vuoti
non mi piace sentirmi sotto esame
le domandine d’approvazione finali
del tipo cara sei venuta, vero?
ma perché, scusa, andavo
verso una precisa destinazione?
Non mi piace non chiamare le cose col proprio nome
e le volgarità gratuite e le parafrasi le frasi fatte
i trucchi pirotecnici le mascherate le simulazioni
le aspettative da soddisfare le ansie da prestazione
la perfezione la perfezione la perfezione a tutti i costi.

Non mi piace io che ascolto Mahler
sinfonia numero otto e dico
che meraviglia, l’adoro! sfilandomi il vestito
sfoggiando un completino intimo di raso
nero e pizzo (che mi punge) così ridicolo,
giocando che sono come un tu qualsiasi mi vuole
uno strumento un balocco di piacere
che non mi piace dicendo sì, ancora.

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