«Nera d’occhi, grande di bocca, non bella, ma piena di vita, la ragazzetta, con le sue spallucce scoperte, da bimba, che la rapida corsa le aveva fatto salir su dal corsage, coi suoi neri boccoli sfuggiti all’indietro, con le esili braccia nude e le piccole gambe dai mutandoni di merletto sulle scarpine scollate», la Nataša di Guerra e pace irrompe tra gli ospiti di casa Rostov con la grazia impacciata e l’irruenza monella con cui irruppe nelle nostre letture e la vita stessa irrompe, imprevedibile e scapestrata, nell’angusto salotto in cui le nostre ideées reçues si scambiano uggiosi convenevoli. Quella ragazzetta indocile è per me la Russia, e Dio sa se quel fruscio di gonne ne ha suscitati, di vortici e raffiche, nella storia del secolo trascorso!

Ebbene: chiunque come me ringrazi ogni giorno il cielo d’avergli regalato Tolstoj e Dostoevskij, Cechov e Stravinskij, Pasternak e Cvetaeva, Ejzenstein e Tarkovskij, per non dire dei grandi anacoreti della chiesa ortodossa e dell’ultraterreno splendore delle sue icone, non oserà mai affiancare alla parola ‘Russia’ aggettivi spregiativi. E invece oggi l’invasione dell’Ucraina sembra autorizzare assurde generalizzazioni e crociate mediatiche ai danni d’un popolo e d’una storia, peggio: di un’«anima».

Ma in cosa consiste questa “anima” che noi occidentali, pragmatici e agnostici, avremmo perduto? Per intenderlo basta leggere quei grandi scrittori e aggirarsi tra i loro personaggi, santi come Alëša Karamazov e il principe Myskin o “demoni” come Stavrogin o Smerdjakov. Consiste nel coltivare un senso della vita come allarmante emergenza e una fede, quella ortodossa, esigente e ieratica, consiste nello sporgersi sull’orlo dell’abisso del delirio e dell’autoannientamento per scrutarvi le vie del Mistero, del Sacro, dell’Oltre, consiste nel sognare la redenzione dell’umanità consumando i giorni in un giardino dei ciliegi o bruciandoli su una barricata.

Tutto questo non giustifica certo una guerra, ma dovrebbe almeno indurci al dovuto rispetto per quell’immane tesoro d’illuminazioni e contraddizioni, di dilemmi e visioni accumulato nei secoli da un popolo estremo, avvezzo agli azzardi e alle oltranze, fiero di una indomabile diversità. Quel geniaccio di Curzio Malaparte, che a quella terra e alla sua storia dedicò migliaia di pagine, intitolò uno di quei libri Il Volga nasce in Europa. Ecco: anche la Russia è Europa, è un’Europa diversa, più turbolenta o più assorta che nel clan di Bloomsbury o nel salotto dei Guermantes; e l’Europa senza la Russia perde tanto, troppo. Perde “anima”.

Dunque quello di “fare anima” sarebbe esclusivo privilegio degli eredi di Sergio di Ràdonezh e di Andrej Rublëv, di Puskin e di Gogol? Certamente no: non è che un’anima non ruggisse, e come se ruggiva, nella letteratura americana dell’Ottocento! Nelle pagine di Melville, Hawthorne, Whitman si avvertiva quello che Vittorini definì felicemente il “ruggito dell’iperbole”: era quell’impasto di “purezza” e “ferocia” che dalla vecchia Europa i Padri Pellegrini travasarono nella natura incontaminata del Nuovo Mondo, erano i loro “astratti furori” che continuarono a risuonare nel sound and fury del grandissimo Faulkner. Ma poi?

Poi, cioè oggi, proprio l’America a stelle e strisce, seguita dall’Occidente che le si è interamente sottomesso e omologato, è l’artefice e uno dei due estremi di una polarizzazione tra due mondi opposti e inconciliabili, anche nella cultura e nelle arti: quello del progresso tecnologico, delle “competenze” avalutative e funzionali, del pragmatismo competitivo e inanimato, e della “riproducibilità tecnica” dell’arte attenta al mercato; e quello dove gli “umiliati e offesi”, i “dannati della terra” coabitano con gli ultimi cultori del pensiero critico, della Bellezza e del Senso, dei valori e delle fedi, dell’arte vissuta ancora come lacerante forzatura conoscitiva ed espressiva, come demistificazione critica o visione oltremondana. Come si allarga inesorabilmente la forbice tra potenti e reietti, tra abbienti e indigenti, così quella tra produttori di feticci e produttori di “anima”, questi ultimi sempre più confinati nelle periferie degli imperi.

Antiamericano? Io no, giammai: non è tra popoli la contesa, né tra intellettuali o artisti. È semmai, se vogliamo ricorrere al lessico di Robert Musil, tra “anima” e “amministrazione” (nell’Uomo senza qualità fallisce il tentativo di conciliarle rappresentato da Arnheim, controfigura dello statista von Rathenau), o se preferiamo rifarci alla drastica alternativa evangelica, è tra Dio e Mammona, ovvero il denaro, oggi diremmo il profitto, la speculazione nei termini definiti da quel Marx figlio come il Nazareno del messianismo ebraico. E allora, mentre deploriamo ogni inaccettabile invasione armata,  riconosciamo però alla Russia d’essersi addossata per tutti noi una croce dal peso devastante: e cioè di aver sottoposto quell’“anima”, a costo di violentarla, al massimo sforzo mai umanamente realizzato di ottenere qui e subito giustizia e uguaglianza, libertà dalla servitù e dal bisogno – e di aver patito per tutti noi, col tragico esperimento del comunismo sovietico, le conseguenza di quella sfida fatalmente votata, purtroppo, alla più penosa delle sconfitte.

Quella Russia, quel popolo oppresso allora da Stalin ma vittorioso su Hitler, ce li ha raccontati uno dei romanzi a mio avviso più belli del Novecento europeo, Vita e destino di Vasilij Grossman, spargendo una smisurata compassione su una miriade di piccoli e umanissimi personaggi stretti nella morsa degli opposti ma altrettanto atroci orrori dell’invasione nazista e della repressione stalinista, nel tempo e nei dintorni della battaglia di Stalingrado del 1942-’43.

E in una delle tante memorabili pagine del suo romanzo Grossman affida all’uomo, al singolo uomo comune e alla sua dimessa ma pur sempre preziosa unicità, un mandato addirittura salvifico: «Le assemblee umane hanno un unico scopo: conquistare il diritto a essere diversi, speciali, il diritto di sentire, pensare e vivere ognuno a suo modo, ognuno a suo piacimento. […] L’unica ragione vera ed eterna della lotta per la vita è l’uomo, la sua pudica unicità, il suo diritto a essere unico».

E aggiunge: «Ho visto la forza incrollabile dell’idea del bene sociale, che è nata nel mio paese. […] Era un’idea bella e grande, e ha ucciso senza pietà, ha rovinato le vite di molti, ha separato le mogli dai mariti, i figli dai padri. […] E dunque oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. […] È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla. […] È una bontà senza voce, senza senso. Istintiva, cieca. Essa è forte finché è muta, inconsapevole […]. La bontà è debole, fragile: questo è il segreto della sua immortalità. Essa è invincibile. Più è sciocca, più è illogica e indifesa, tanto più è imponente. Il male non può nulla contro la bontà! Profeti, apostoli, riformatori, leader, capi delle nazioni nulla possono contro di essa. La bontà, amore cieco e muto, è il senso dell’uomo».

Grossman fu tra i primi soldati russi a varcare i cancelli dei campi di sterminio abbandonati dai nazisti in fuga: forse, contemplando sgomento quell’infinito orrore, capì.

Capì, vide l’abisso di tormento e distruzione sull’orlo del quale ancora vaghiamo. Capì che al cospetto dell’orrore non c’è che stringersi in un abbraccio di solidarietà, di dolente condivisione, di «bontà senza voce, senza senso», avvinti in un legame che non conosce nazioni né frontiere, capi da seguire né nemici da combattere. Capì, di fronte a quei corpi confusi in una indistinta catasta, che la vita di ogni essere umano, del singolo più anonimo e insignificante, valeva e vale infinitamente di più d’ogni assetto o progetto sociale, statuale, economico. E oggi? Oggi la morte dell’ultimo dei caduti, che sia un civile nelle macerie di Kiev o un soldato russo mandato a morire in una guerra che non capisce, ci ripropone l’immane quesito che tormentava Ivan Karamazov: se Dio non esiste, tutto è lecito, «distruggete negli uomini la fede nella propria immortalità» e inevitabilmente «tutto sarebbe permesso»: l’odio, la violenza, la sopraffazione.

Vedi alla voce amore. Già proprio l’eros o l’agape, la solidarietà vissuta con i dannati della terra, la pratica quotidiana e sofferta della comprensione, della condivisione, del servizio. Della compassione, più forte d’ogni conflitto politico, etnico, religioso: quando lo zar Alessandro II cadde mortalmente ferito dalla seconda bomba scagliata dai rivoluzionari contro la carrozza imperiale, arrestato uno degli attentatori e morto l’altro nell’esplosione, fu il terzo di loro ad accorrere, anziché fuggire, per sorreggere il monarca morente, offrendogli come un cuscino il suo braccio e come un viatico la sua pietas.

Paradossi che solo l’anima russa può concepire, come quello grandioso dello starets Zosima in ginocchio al cospetto del potenziale parricida Dimitri Karamazov. O dell’angelica indolenza di Oblomov; sì, proprio lui, Il’ja Il’ič Oblómov, l’immortale e sempre fraintesa e bistrattata creatura concepita da Gončarov: esempio supremo non di volgare accidia bensì d’una mitezza che rischia l’impotenza ma rasenta la santità, Oblomov coltiva un’indolenza che alla critica engagée dell’Otto e del Novecento parve da condannare come frutto marcio del parassitismo nobiliare, e invece è sogno di armonia, di ritorno a un paradiso perduto di pacifica convivenza e reciproca indulgenza, di reciproco riparo dalle turbolenze e dalle offese della “storia”. Alle quali chiediamo requie anche noi, ripetendo par coeur le parole che un altro grande russo, Anton Cechov, fa sussurrare a Sonja nello Zio Vanja: «Riposeremo! Sentiremo gli angeli, vedremo tutto il cielo pieno di diamanti, vedremo tutto il male terreno, tutte le nostre sofferenze affondare nella misericordia che riempirà di sé tutto il mondo, e la nostra vita diventerà quieta, soave, dolce come una carezza. Io credo, credo… […] Noi riposeremo… Noi riposeremo! Riposeremo». 

 

in copertina, Leonid Pasternak, Il primo ballo di Nataša, 1893

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