Quando mi fu chiesto se potevo occuparmi di stendere una relazione sull’antologia Haiku – tra meridiani e paralleli curata da Dona Amati con la prefazione di Francesco De Girolamo accettai volentieri, poiché il privilegio era doppio: quello di ritrovarmi investita di una certa responsabilità di lettura e analisi, quello di approfondire la mia sensibilità e attenzione verso una poesia, un verso particolari, che molto tempo addietro avevano destato la mia curiosità, ma non la mia “amorevolezza”. E proprio in un momento in cui mi interrogo sulla relazione che intercorre tra parola poetica – creazione della parola poetica – e relazione con l’ambiente che il poeta frequenta, intendendo in questo caso anche l’ambiente dei libri in quanto ritengo che tutti i libri letti, amati, studiati costituiscano un vero e proprio ambiente e psichico e affettivo, dunque relazionale. L’antologia si apre con la bella prefazione di De Girolamo che illustra agevolmente la struttura dell’haiku – breve composizione di tre versi di cui il primo e l’ultimo quinari, mentre il verso centrale settenario -, la assoluta necessità della presenza del kigo – elemento di collegamento del tema del componimento a una stagione -, né sull’evoluzione storica di questa poesia nata in Giappone, che ha origini antiche e non facili da delineare, discende dalla più antica tradizione poetica definita Waka e che a partire dal XII secolo inizia una evoluzione sviluppandosi nel Renga, contribuendo a popolarizzare la cultura aristocratica che rifluiva invece nel Waka. A chiusura della raccolta antologica la nota di Dona Amati – curatrice dell’Antologia – ci illustra con chiara coscienza la nascita del progetto, di come l’idea l’abbia raggiunta nel contesto di un importante incontro di poesia, attribuendo al termine incontro la valenza di una sacralità in cui si inverano i talenti, le attitudini, i linguaggi, le storie e la volontà di congiungersi a una forma letteraria lontana e diversa per meridiani. La lettura dei numerosi contributi mi consente di sottolineare che le poesie contenute nell’Antologia rispondono sia al canone ufficiale della poesia haiku tradizionale in cui sono dunque presenti tutti gli elementi necessari a connotare l’haiku – natura, sentimenti, emozioni del poeta nei confronti della natura, presenza del kigo, contrapposizione di due immagini contrastanti in cui una alluda al tempo e/o al luogo e l’altra alla fuggevolezza di una impressione in modo da richiamare per sintesi profondi stati d’animo – e dal punto di vista della versificazione il rispetto delle 17 sillabe, sia a una dimensione più occidentale per cui i poeti compongono versi con un numero di sillabe lievemente maggiore e per ciò che attiene al paesaggio incontriamo haiku che hanno un imprinting surrealista in cui il kigo spesso è assente e conferisce alla poesia la sensazione di “senza stagione” e una sorta di straniamento. Ciò che però costituisce il nucleo centrale della mia attenzione e lettura critica è il momento e l’atmosfera in cui nasce una poesia haiku e che si dà come evento molto particolare, carico di “presenza” tra il poeta e ciò che accade intorno a lui. Chiamo questo momento creativo creanza impressiva in quanto ciò che viene scritto nel brevissimo testo di 17 sillabe non ha nulla a che fare con la connotazione o la descrizione cui siamo abituati in Occidente: è una vera e propria immersione, una confluenza, una adesione tra l’autore che avverte una impressione, una emozione, una fascinazione nell’istante in cui viene colpito da un “qualcosa” che sta accadendo fuori di lui, nell’intorno e che ha il potere di imprimersi gravido di senso per se stesso e per il poeta, il quale vi risponde accogliendo e creando con tutto il senso possibile originantesi da quel momento privilegiato. Accade nella natura, direi piuttosto nel paesaggio, in quanto il poeta non è presenza staccata e osservatrice secondo il concetto occidentale, ma è appartenenza, fusione, in cui l’evento psichico dell’autore, con tutte le sue capacità attentive ed emotive, coincide simultaneo esattamente con l’evento della natura: nel breve momento di un accadimento si realizza nell’essenzialità tutta la potenzialità della vita implicata nell’accadere. Tale istante privilegiato ha tutti i crismi di una rivelazione, di accadimento numinoso: tre eventi differenti (per rifarmi all’haiku famosissimo di Bashō) – uno stagno, il tuffo di una rana e il rumore dell’acqua – simultaneamente uniti, fissati nella completezza dell’immagine e che non potrebbero sussistere l’uno senza l’altro, per cui agiscono tutti allo stesso modo. Si è così in presenza sia di vuoto soggettivo, sia di vuoto oggettivo. Per maggior comprensione, cito testualmente quanto riporta Giangiorgio Pasqualotto (docente di Filosofia Estetica all’Università di Padova), ne L’estetica del vuoto: “[…] Per avvicinarsi a comprendere la presenza e l’efficacia del vuoto nello haiku può essere d’aiuto ricorrere a due espressioni giapponesi “fuga no mako” e “zoka no makoto” […] che potrebbero essere rese con “genuinità del gusto” e “genuinità della natura delle cose”. Nell’haiku di Bashō si verifica l’incontro di queste due genuinità, quella soggettiva del poeta e quella oggettiva dell’evento. Ciò significa che il soggetto, per poter cogliere ed accogliere la genuinità dell’evento si rende vuoto di ogni intenzionalità sia intellettuale che sentimentale, al punto di rendersi equivalente all’evento. Allora non si può più parlare di due vuoti (quello del poeta e quello dell’evento), ma di un unico vuoto che si determina come poesia e come evento”. L’estrema concisione dei versi, la soppressione dell’articolo, la rarefazione dell’aggettivo, il vuoto avvertito dal lettore attento come la sospensione di tutto il mentale a favore dell’appercezione sensoriale introduce al cospetto di qualcosa altamente significativo e capace di imprimere senso assoluto, tutto il “respiro del mondo”: per cui il mondo si rivela come istante di eterno, momento di incontro, anzi, molto di più: vero e proprio momento coincidente il microcosmo con il macrocosmo, ciò che viene detto con un termine zen “satori”. Appare in questa simultaneità, in questo reciproco sorgere, sia la bellezza che attiene a un ideale estetico che si traduce con il termine sabi – il pathos nelle cose che discende dalla bellezza della solitudine, della calma e del passato e che conferisce all’haiku quell’equilibrio particolare, quella atmosfera né troppo cupa né troppo gioiosa – , sia la bellezza che coincide con il termine wabi – di non facile definizione e che indica la sensazione di solitudine, di quiete interiore, di ricchezza spirituale, la capacità di cogliere l’intima bellezza delle cose semplici e rifuggire da tutto ciò che è superfluo e apparenza -. La poesia haiku incarna dunque le categorie estetiche tradizionali della cultura giapponese e rivela la coscienza della realtà come flusso continuo, libero da ogni dicotomia pervasiva come invece nella realtà dell’occidente. A tale proposito voglio citare un pensiero di Domenico Scafoglio pubblicato in La coscienza altra: “La poesia riverbera in forme originali il modello culturale di un mondo e la struttura dei suoi rapporti sociali, è il “colpo d’occhio” che condensa un tempo storico a partire da una situazione specifica e da un’angolazione particolare; ma, [….] non si limita a questo: essa costituisce una “deroga dalla coscienza quotidiana”, analoga a quella che Duerr riconosceva nell’esperienza estatica, con la quale la poesia è strettamente imparentata: questa deroga va in una direzione opposta a quella della scienza moderna, perché “in luogo di un disincanto ad opera di analisi irriguardose, viene ricercato l’incantamento e l’unità tra oggetto e soggetto in esso auspicata”. L’esperienza conoscitiva della poesia, come quella dell’estasi, costituisce “una sfida al pensiero disciplinato”. In relazione a quanto fin qui esposto, discende legittimo interrogarci su quanto della poetica haiku vi sia come influenza, fascinazione, o piuttosto correlazione – in virtù di una antropologia della poesia che individua unità di temi e permeanze di senso, oltre che un uso della parola, del verso, pur in meridiani distanti per geografie, ma vicinissimi per Anima Mundi – nello scenario complesso, difforme e scintillante della poesia occidentale, in particolare quella italiana. In alcuni poeti italiani, in particolare in Salvatore Quasimodo, si possono individuare tracce di haiku; Cristina Banella, analizzando la silloge Ed è subito sera, scrive “Il lettore giapponese che affronti per la prima volta l’opera di Salvatore Quasimodo potrebbe avere la sensazione di leggere qualcosa di familiare, di già udito. Nella sua mente, infatti, potrebbero sollevarsi echi che lo riportano al waka e, ancor di più, allo haiku. Questo accade in special modo con le prime poesie di Quasimodo […], ed in particolare nella parte intitolata Acque e Terre. Indubbiamente il primo elemento che colpisce è quello strutturale, il ricorrere a composizioni o a versi brevi, anche se non è possibile ritrovare in Quasimodo l’esatta scansione ritmica della poesia giapponese. […] Quasimodo assolutizza le cose e le identifica con le parole: nelle sue prime poesie quasi non esiste sintassi. […] Alcune di queste composizioni, inoltre, risultano a volte curiosamente vicine a una tecnica metrica della poesia classica giapponese: quella del kakekotoba, che esprime continuità di ritmo senza fratture sintattiche. […] nel corso delle nostre ricerche, però, abbiamo rilevato almeno due soggetti, il vento e l’acqua, usati in maniera simile sia in Quasimodo che nello haiku. […] Un altro elemento che ci pare fondamentale nello haiku e in Quasimodo è la presenza della tensione tra il passeggero e il permanente”.
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