Ignoto dice a ignoto: Cimatti e il suo doppio in poesia

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   Non mi sorprende che le poesie di Sagittario in amore di Pietro Cimatti (Di Felice Edizioni, Martinsicuro, 2015) costituiscano un’opera postuma, giacché rappresentano un testamento, una confessione in versi in cui l’autore disserta su temi basilari, da sempre oggetto di speculazione: l’origine dell’ispirazione poetica, il rapporto dell’Io con se stesso, il significato di tempo e di realtà.

   Cimatti mette a nudo la figura del poeta, spogliandola d’ogni retorica e di qualsiasi sovrastruttura romantica, per riconoscerlo come mero/puro «strumento di poesia». C’è un passaggio nello Ione di Platone in cui possiamo trovare, a questo proposito, una fondamentale chiave interpretativa. Il filosofo afferma che «il poeta è una cosa lieve, alata e sacra, e non c’è inventiva in lui, poiché egli è stato ispirato ed è fuori di se stesso, e la mente non è presente in lui; quando non ha raggiunto questo stato, allora è impotente e incapace di pronunciare oracolo». Allo stesso modo Cimatti riscontra nell’attività del poeta una presenza esterna, un «amico invisibile» o «amico assoluto», una partecipazione mistica che irradia il suo quotidiano, risvegliandolo all’alba: «Qualcuno mi ha chiamato/ nel sonno. Eccomi./ Immobile, seduto,/mi guarda, e non lo vedo». È una presenza costante eppure inafferrabile, prossima all’uomo eppure portatrice d’un messaggio ineffabile che può essere affidato soltanto alla parola scritta. Il poeta abbandona ogni riserva e, riconoscendo la propria estraneità, ammette di essere preda di qualcosa di superiore: «Cosa ho scritto?, chi ha creduto/ di scrivere? La sedia è vuota. Vuoto/ è il foglio. All’alba sono stato alzato,/ portato qui. Qualcuno mi ha chiamato./ Era seduto, l’ho veduto: ha scritto». All’autore non resta che abdicare alla parte mortale dello spirito, abbandonare la ragione per permettere al diamon di prendere il posto della sua mente, e ordinare la scrittura: «la mia/ vita non è mai mia. Come già dissi/ sono stato strumento di poesia».

   Perché la ragione è qualcosa di pericoloso, una facoltà che induce l’uomo in errore scostandolo dalla parte essenziale di se stesso. «Sospendi la tua mente. Non pensare», è l’invito appassionato del poeta, poiché a suo avviso il pensiero distorce la realtà che è tutta nel presente, proiettando l’uomo nel falso ideale del passato e del futuro. «Ti prepari/ con il pensiero e ti sono avversari/ i volti che ti specchiano». La mente inganna l’uomo restituendo gli innumerevoli riflessi della sua maschera sociale, inducendolo a riflettere e rimuginare su false passioni, convinzioni fallaci, volte a creare il «tempo del dolore». «La vita non si anticipa (è l’errore)/ né si ricorda (altra vita/ sempre ti invita) non passa e non dura/ (è l’eterno presente)». Nel momento stesso in cui l’uomo si lascia trascinare nel rimpianto del passato, o nell’aspettativa dell’avvenire, perde l’occasione più importante, quella di vivere la realtà più vera, che solo nell’attimo – il «verticale fremito» – si trova. L’attimo è contenitore dell’eterno, da cui l’uomo è stato estratto per essere forgiato nella creta della sua mortalità, e si presenta continuamente; nel momento stesso in cui l’uomo prova a concepirlo ne segue subito un altro, e così la realtà – che è nell’attimo – sfugge e porta con sé l’unica possibile percezione del vero. «La mente non può coglierlo e lo inventa/ come memoria: e l’attimo diventa,/ nella rete del tempo, un punto oscuro/ tra passato e futuro». Si cerca disperatamente di afferrare quel momento di espressione universale, durevole quanto un battito di palpebra o un rintocco di lancetta, di racchiuderlo nelle vane congetture temporali della mente ma il risultato è vano, allora ci si accontenta di fare dell’attimo un rimpianto di ciò che è stato o una speranza di ciò che sarà.

  libro-cimatti Quello di Cimatti è un infinito smarrirsi dell’Io, un perenne ritrovarsi nelle immagini perdute nel tempo e negli elementi della natura. Anzitutto c’è il bisogno di onestà intellettuale per chi ha sentito smarrire la propria identità tra i risvolti prismatici della vita, quindi il mancato riconoscimento dell’uomo di fronte alla propria immagine. Infatti lo specchio gli risponde: «Sono il tuo volto: guarda: sono nuovo./ Non ti conosco, sosia del pensiero/ non ti conosci. Vedi che mi muovo/ come straniero. E tu sei lo straniero». È il pensiero ad avere la colpa di allontanarci da una più esatta percezione di noi stessi, che solo la perfetta simbiosi con l’ambiente circostante, e soprattutto quello naturale, potrebbe restituirci. Le foglie, «giovani iddii che camminate al vento», sono le vere padrone dello scorrere dell’esistenza, del cosmo inteso come totalizzante accettazione del vivere. Il vento, come il tempo che tutto raccoglie nel suo incedere, trascina con sé le foglie senza che oppongano resistenza, in suadente armonia con lo svolgersi del creato. L’uomo guarda con invidia il concento degli elementi naturali: «Vedo/ come danzate, e non ho mai danzato,/come in verde torneo siete sorelle,/ e sono solo, a chi mi sfiora ostile/ e dico foglie, e voi non siete niente/ – erbe d’aprile, vive ora soltanto». Le foglie si «inchinano obbedienti» alla folata, s’accordano tutte insieme perché il ciclo vitale, leggiadro quanto impietoso, abbia luogo; l’uomo resta solo, impacciato, e non sa spiegarsene il motivo. Allora viene stabilito il netto contrasto tra Uomo e Natura: alle foglie il poeta dice «tutto sapete e niente ricordate», mentre a se stesso, «tutto ricordo, e non so niente». La memoria è unicamente un’esigenza dell’Uomo, incapace di cogliere il presente e riconoscerlo, limitandosi a raccoglierlo come un pedante archivista, senza sapere cosa fare di quelle impressioni, senza comprendere il loro riposto, intimo valore. La Natura invece non ha bisogno di ricordare, perché la verace esistenza non è che un eterno presente, e la sua sapienza sta nel semplice manifestarsi. L’essere umano si perde nelle innumerevoli rappresentazioni di sé, eppure attraverso di esse avrebbe modo di riconciliarsi col creato. Nel componimento Tutto parla di te, un vigoroso slancio poetico in rima baciata, Cimatti sciorina le infinite possibilità in cui l’uomo può riconoscersi, nella massima semplicità, nella cruda nudità della vita: «Bevi alla fonte: è l’acqua che disseta./ Leva la fronte; è il nembo che ti accieca./ Alza la pietra e li lo troverai./ Ti origina e ti aspetta dove vai». Un nuovo invito a prendere i due capi della vita, a unirli, a conciliarli, per riappropriarci consapevolmente delle nostre origini e del fine che ci aspetta, un tuffarci e un risorgere tra «abisso e ritorno».

   Passiamo adesso dal contenuto al tono di queste poesie, al loro valore tecnico. Cimatti è un eccellente versificatore, un felice cesellatore di ritmi e rime. Riesce a passare abilmente dalla canzone libera al verso sciolto, in cui primeggia un endecasillabo lieve e lineare nello scorrere ma tecnicamente ben elaborato. La ripartizione strofica non ha particolare incidenza sull’efficacia della poesia ma quando l’autore decide di puntellare il testo di rime, le sceglie distribuendole con acume musicale, e molto spesso incidono il verso con procedimento pirografico, lo marchiano a fuoco con tutta la grazia possibile. La poesia vacilla ricorrentemente sull’ultima sillaba, in un enjambement che versa a capo la cera calda della melodia, così che il discorso acquisisce un continuum inarrestabile, capace di tenere alta la tensione poetica fino all’ultimo verso. Ma il tono – contrariamente a quanto possa sembrare, descritta una tecnica tanto sofisticata – è dei più leggeri; ora goliardico e pungente, ora capace di toccare le corde della lira al limite del più sottile sentimentalismo. Perché quello di Cimatti è anzitutto un discorso con la propria interiorità, un dialogo intenso e scanzonato, vivace e contemplativo, che mai ristagna nella retorica, mai indugia nell’autocompiacimento stilistico o filosofico.

   Difficile trovare dei modelli letterari per Pietro Cimatti che, nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento, occupa un posto decisamente anticonvenzionale, fuori da qualsiasi schema. Viene appunto definito «anarchico e incendiario» dal giornalista Osvaldo Guerrieri, che in un articolo sulla «Stampa» (Poeta erede di Aldo Palazzeschi, 24 aprile 1976), dedicato alla pubblicazione della raccolta Segno di vita (Rusconi, Milano, ‘76), propone per l’autore questi possibili riferimenti poetici: «La matrice più vicina è quella di Palazzeschi, dal quale si può risalire a Cecco Angiolieri e ai macabri impiccati di Villon. Ma tra questi estremi agiscono sedimenti di altra poesia, soprattutto di quella surrealista e di quella pura». Se si parla di purezza del linguaggio, di lucentezza lirica, mi sentirei di accostare allo stile di Cimatti quello di Umberto Saba. Col poeta triestino condivide la leggerezza del discorso poetico, la cantabilità del verso, il felice disincanto che si frange dinanzi all’incanto dell’infinitesima quotidianità, e soprattutto il ricorso a «fughe e canzonette». «Anima fanciulletta, anima cara,/ ecco prendi di me quel che tu puoi./ Io prendo tutto: la dolcezza, e poi,/ che più mi piace, la tua essenza amara»; così Saba svolge il confronto tra l’uomo e l’altro se stesso, tra l’Io raziocinante e l’Io sensibile, in un’amara dialettica che si rinvigorisce d’una tepida speranza, in un dialogo in cui «ignoto dice a ignoto:/ Eccomi sono pronto. Sono vuoto». Perché occorre svestirsi dei propri orpelli terreni al fine di riconquistare la libertà dell’animo, e cantare le sue gesta, perdute nei secoli, nei meandri dell’infinito: «E così ascolto, e annoto/ immaginando il genio come il vuoto». Riempirsi di vita, altro non resta.

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