Io dirvi non so come
che fui malato e matto,
Annibale di nome,
cannibale di fatto,
ma che ci posso fare
se, contro l’altra gente,
sceglievo di mangiare
un uomo al dente.

Di certo la mia sorte
non fu gentile e retta,
sin dalle brache corte
mi volle pia forchetta,
così saziai distrutto
i teneri languori,
accomiatai col rutto
i genitori.

Insomma un Ugolino
io fui, ma rovesciato,
stavolta fu il bambino
a compiere il reato,
ma solo col supplizio
potettero salvare
il figlio loro e il vizio
suo di sbranare.

Quando divenni adulto
non mi passò la fame
e senza alcun indulto
il giorno dell’esame
la peggio della scuola,
la mia professoressa,
la misi in casseruola,
la feci lessa.

Intanto che lo Stato
cercava il criminale,
famelico e dannato
viaggiavo col mio male,
andavo per il mondo,
nei meglio ristoranti,
sceglievo per secondo
i suoi abitanti.

E se un boccone grosso
mi rimaneva stretto
bevevo il sangue rosso
di chi mi dava il petto,
e solamente poscia
io mi cibavo lesto
del piede, della coscia,
di tutto il resto.

Ma un giorno vidi lei,
le labbra color miele
e gli occhi verso miei,
lo specchio d’un crudele,
d’un mostro con il ruolo
d’ingordo ed affamato,
stavolta, invece, solo
innamorato.

La pancia mi si chiuse,
si spense il mio appetito,
la musa delle muse
mi rese più impazzito,
così m’avvicinai,
la volli accarezzare,
per ossessione, ormai,
pure annusare.

E all’eccellente odore
di donna seducente
l’istinto mio, l’orrore,
si fece impertinente,
un desiderio forte
d’umano macellato
che solo la sua morte
m’avrebbe dato.

Perciò, debole orco
col torto nel cervello,
intollerante al porco
così come al vitello,
insomma all’animale,
sia cotto che al carpaccio,
per non recarle male
mi morsi un braccio.

E mentre la osservavo
di panico vestita,
dolente assaporavo
la carne delle dita,
morivo fra i lamenti,
sfamato e innamorato,
col cibo sotto i denti,
ma dissanguato.

poesia tratta da L’ultima nuvola di Alfio Grasso, Algra Editore (2013).

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