Quasi tutta la poesia dell’ultimo trentennio resta ancorata alla sostanza antropologica che fa emergere, in modo palese, complesso e consapevole, la rappresentazione realistica del mondo. Alessio Brandolini, nel lavoro poetico in forma antologica, poesie dal 1992 al 2014, dal titolo Il futuro è un campo incolto – LVF, 2016, mette in risalto scene pregne di visionarietà e concretezza compiendo una conversione psicologica del tempo, misura di riferimento negli anni ’90, che ordina le cose e la memoria. La coscienza critica e osservatrice dell’esistenza è l’unica voce testimone e partecipe dei luoghi (psicologici e sociali) che vanno in frantumi e che sono abitati dai suoni e dai rumori di superstiti negoziatori dei tormenti del secolo. I segnali esterni, quindi, assumono il ruolo dialettico interno-esterno includendo i movimenti ampi di un mondo in cui il disagio e l’inquietudine maturano immagini e protagonisti creando spunti propositivi per il sentimento che resiste, persiste. Il racconto poetico intreccia un lungo viaggio che va a ritroso, nell’ordine interiore della terra, anche nel ricordo familiare – l’albero maestro/paterno – per meglio edificare il presente sperduto e sofferente, mancante di senso trasformandolo in una avventura che suggella l’equilibrio sottile tra la concretezza e la magia della metafora. Il lessico poetico riesce nell’intenzione di essere testimone di una archeologia temporale e stilistica che tiene insieme realtà e finzione, per questo motivo il medico diventa il paziente, il contadino il letterato, gli episodi quotidiani una attenta operazione storica che riassume sentimenti di appartenenza e distanze epocali, difendendo e celebrando i mondi perduti con originalità instancabile e a tratti struggente. L’autore tiene insieme tutti i segnali dispersi nel tempo, conserva i nomi dell’amore nelle dediche, gli spazi del ricordo tematici che recuperano peculiarità generazionali e intrecci di relazioni umane. L’alba a piazza Navona (1992), Divisori orientali (2002), Poesie della terra (2004), Il male inconsapevole (2005), Mappe colombiane (2007), Tevere in fiamme (2008), Il fiume nel mare (2010), Nello sguardo del lupo (2014) sono le raccolte da cui sono estrapolate le poesie di questo lavoro antologico che intesse il cammino, sotto l’azione fluttuante del passato, di climi poetici evocativi perduranti come cicatrici e, allo stesso tempo, come un assortimento di confidenze emozionali medicamentose, segrete. La narrazione spalanca spazi imprevisti della percezione manifestando la ricerca della verità, mentre le tentazioni del mondo trovano coinvolgimento nella mediazione psico-filosofica del verso lungo, fino alla prosa, cioè fino all’intensità della sublimazione finale.
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Certo non dissento, e dopo che farei?
Però nel frattempo rinnovo casa
mi trasferisco in un angolo di strada.
Sì, trasloco fuori città
magari in un bosco
mi stabilisco in una quercia cava.
Un mondo rinforzato
da vitamine e sali minerali
certo più sicuro per via degli antifurti
delle porte blindate
dei cancelli sbarrati
con paletti e lucchetto
di libertà sigillate in cassaforte
in attesa di tempi migliori
di un nuovo perfetto equilibrio.
Non sentirò il bisogno
di avere una parte di tutto.
Avrò poco e quel poco mi basterà,
non sentirò la fretta di consumarlo.
Farò a meno di appigli e stampelle
lascerò la porta spalancata
sarò felice di ricevere ospiti e amici.
Tanto la pioggia cancellerà le impronte
diverrà impossibile tornare indietro.
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CON IL VETRO TRA LE DITA
Pratico i giorni di festa come se nulla fosse
striscia la luce sotto un tappeto di foglie
ed ecco la voragine di ricordi che prendono
fuoco e poi il lunedì il martedì il mercoledì
e via discorrendo. Le attese, sai, non sono
il cimitero che ci assomiglia
nel suo rumore di voci
nelle macchie dorate della morte
accarezzate con il vetro tra le dita.
Per questo la mia fermata è pronta
da giorni. Ammira i grandi fari, i bagliori
che cullano e quelli avuti in dono dalla luna.
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LA STRATEGIA DEL SOGNO
La ribellione consiste nel guardare una rosa
fino a polverizzarsi gli occhi.
Alejandra Pizarnik
L’azione imprevista dell’onda
annulla la tenacia del silenzio
più simile alla morte che all’erba
cresciuta sui lampioni delle strade.
Al mare le ore procedono meglio
ci si riveste di salsedine
si mettono le pinne e in pochi
istanti ci si ritrova fuori dal deserto.
Così lo spazio bianco non finisce
nei pozzi d’inchiostro, prova
ad allungarsi verso il meridione
a infilare i sogni nelle tasche del vento.
La strategia del sogno, isolata nel vuoto
presa all’arpione, sottratta alle tenebre
è la memoria lavata dal male. Ora brilla
l’immagine della rosa triturata dal rancore.
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Voglia di non lasciarsi
marcire dal rimpianto
né di cucirsi la bocca
che sgretola il buio delle parole
gli incendi disseminati sull’acqua.
Non temere lo specchio del cielo che riverbera
violette, rose gialle, rami spezzati dal freddo,
le stelle distanti anni luce che crepano di rabbia
per la vita umana, né l’angelo della fontana al centro
del paese che nelle mani stringe dinamite e piccone.
Farsi audaci e marciare a naso, in punta di piedi
sui fiumi sotterranei di lava e quella indurita
che ha modellato il profilo dei Castelli
romani, sui colli ricoperti di boschi e vigneti
nell’azzurro incavato dei laghi di Albano e di Nemi.
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Il percorso estivo lo traccio su fogli arancioni
per ricondurmi all’infanzia ho gli strumenti giusti
e quando mi preoccupo per i tagli sul collo
intravedo il residuo di un mosaico divino
abbandonato all’aperto, in una discarica di rifiuti.
Tornare a casa sdraiati in un vortice di pensieri
in un silenzio stonato che si blocca a mezz’aria
non è un gioco da ragazzi, né un giorno festivo.
Elettrico emisfero che altera prospettive e ricordi
nutre la voglia di riscatto e l’esca che ci aspetta
è lo squarcio lunare, il grido soffocato del destino.
Nella stanza accanto però ci sono i figli
che giocano nel sonno
e io con loro sono un cucciolo di lupo
in cerca di affetto, in cerca di una madre.
Trasparente si fa lo sguardo che sostiene la strada
i volti dal profilo smussato ripescati nel pozzo
perché a quest’ora notturna scende un ardore nuovo
di erba bruciata, di un giallo di chitarra e di ginestra.
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En el fondo del mar
hay una casa
de cristal.
Alfonsina Storni
In croce i corpi a un metro dall’acqua
braccia tagliate, impilate da una parte.
Ammaccati, con incisi nomi cuori date
frasi oscene, disumane. Le facce gonfie
con bruciature sul collo gambe costato.
Come se non fossero uomini
con le loro mogli e madri, i giovani figli,
ma esche buone per la morte e il dolore.
Corpi utilizzati per un falò, probabilmente,
arsi con l’impegno di non soffrire mai più
di fame, di lavoro perché per loro non c’è
una casa di mattoni né tantomeno di cristallo.
Lupi dal muso gonfio, il collo tirato, le mani
aggrappate alle reti: dopo la fuga il naufragio
nell’intrepida attraversata del Mediterraneo.
Resta solo il silenzio
di quei morti sepolti in fondo al mare.
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Ci si vedrà da un’altra parte, in una terra meno sconosciuta
saremo quello che non potevamo essere
ci si scioglierà il sale nascosto in fondo agli occhi
isseremo l’àncora dei vascelli che marciscono nell’anima.
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PAROLE SUGGERITE ALLO SPECCHIO
I
Provi a sorridere tra i colori d’un campo incolto
strofini gli spigoli del profilo, lo deformi e svelto
percorri il bordo oscuro della cornice. La musica
del ciliegio ha messo tenere radici, fascia l’aria
di bianco. Il vento schiaffeggia, la trama di luce
vibra per indurre al suono. Forse ce la fai, divieni
adulto, dal teschio ti stacchi non dalla carne, triti
il passato e soffochi all’istante. Prima era tutto
un altro discorso con gli occhi sgusciati dalla paura.
Dalle foglie del gelso il verde da spargere nel sangue
proviamo se i piedi ci sono, se il cuore batte: probabile
ma dovremmo parlarne, non credi? E i giorni torneranno
all’originario splendore? Su questo rifletteranno i delfini
guizzanti nelle vene, gli sguardi incistati di nuvole.
Amare non è scomporre ogni volta i bisbigli ma tu seguiti
a lacerare: alzi steccati, affili coltelli, chiudi le vie di fuga.
La verità è nel chiodo piantato nel tronco, nella veglia
che stanca ma oscilla laggiù tra i rami innevati del ciliegio.
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INSETTI E VOCI
Mi odi perché ti somiglio o per quello che dico?
Le mani non afferrano le voci, già in altri luoghi:
cronometrare le forze, usarle contro il nemico.
L’odore della corteccia dei noci snida l’energia
dei bulbi. Le ossa tintinnano, strappano schegge
alla lingua. Inchiodato al palo un cane abbaia
lodi al carnefice. Hai fatto bene a farmi colare
a picco in storie che non avrei mai compreso.
Lumache seminano il traguardo che lievita sotto
i piedi, si alimenta a piume la cupola di Sant’Ivo.
Scoprire le cause di questa ronzante compagnia
si parla con mosche, api e zanzare, ci si spintona
dentro se stessi. Si progettano fughe, incursioni:
le cose da fare certo non mancano, già questo è
un effetto. Si lamenta l’erba recisa, reclama
una tomba tutta sua, il fuoco la converte in fungo
in fasi di vita. Non dirmi che lo avresti desiderato
c’è il futuro da ricomporre, una via da scortare
verso zone illese. Nuoto tra delfini e granchi
gli insetti hanno ali luminose dai riflessi cristallini.
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IL CAMPO INCOLTO
Non è il caso di riferire sussurri: l’attimo
modifica l’infanzia? un picco invalicabile
scavo e m’imbatto nella talpa, fuggo da chi
non c’era o faceva finta. Per amici zanzare
farfalle, un cane. Il passato è la parte celata
della luna, lo scenario è questo e se voglio
che i sogni siano reali devo essere
in viaggio non l’altro rinchiuso nel bunker.
Appeso al ciliegio per irrobustire i muscoli
osservo il corteo delle formiche e dei ragni
che tessono senza fretta i loro felpati giorni.
Figli mordono padri che non sanno giocare
oggi è Natale poi verrà Pasqua nessuno frenò
le mani oscene. Non riuscivo a stare zitto
ora ascolto le foglie, ho fatto bene a non sparire
ho terra incolta da esplorare, papaveri esplodono
lungo il percorso. Il passato è un luogo di alberi
impiccati, d’un vento senza strade. Solo il buio
sprona alla vita, piega le ossa in caverne di luce.
Quello che ho fatto non lo ritrovo e il sole
si spalma all’indietro. Nel campo ho capito
dalle cose o è l’erba incolta ad avermi compreso?
*
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ALESSIO BRANDOLINI (1958) vive a Roma dove si è laureato in Lettere moderne. Ha pubblicato i libri di poesia: L’alba a piazza Navona (1992, «Premio Montale – Inedito»), Divisori orientali (2002, «Premio Alfonso Gatto – Opera Prima»), Poesie della terra (2004; anche in spagnolo: Poemas de la tierra, 2004 e 2014), Il male inconsapevole (2005), Mappe colombiane (2007; anche in spagnolo: Mapas colombianos, Colombia, 2015), Tevere in fiamme (2008, «Premio Sandro Penna»), Il fiume nel mare (2010, Finalista «Premio Camaiore») e Nello sguardo del lupo (2014). Nel 2016 è uscita l’antologia poetica: Il futuro è un campo incolto (1992-2014). Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue e pubblicati su riviste italiane e straniere. In Costa Rica sono state pubblicate le antologie En el ojo del lobo (2009), Desde otro planeta (2014) e in Colombia Llamo desde otro planeta (2016), tutte con la traduzione di Martha Canfield. Dal 2003 al 2013 ha fatto parte del gruppo “I Libri In Testa”. Nel 2013 ha pubblicato il libro di racconti brevi Un bosco nel muro (Empirìa). Traduce dallo spagnolo e dal 2006 coordina «Fili d’aquilone», rivista web di «immagini, idee e Poesia». Nel 2011 ha fondato la casa editrice Edizioni Fili d’Aquilone.