“Il monte del ricordo”, Michele Hide, con rara abilità nei luoghi della sua tradizione ebraica.

La poesia è fondamentalmente un servizio alla lingua, e il poeta, oggi più che mai, ha il compito di non disperderne il valore e la bellezza che ha raggiunto anche e soprattutto attraverso la nostra tradizione lirica. Lo sa bene Michele Hide che con Il monte del ricordo, edito da Stampa 2009, ci consegna un’opera di preziosa capacità del dettato, attraverso l’uso di un lessico discorsivo e mai appesantito da forzature di modo. Pacatezza e profondità appartengono al suo dire, al suo tono incisivo e colloquiale, senza mai perdere contatto con la parola limpida e accuratamente selezionata con precisa misura ed equilibrio. E lo fa soprattutto muovendosi con rara abilità nei luoghi e nella memoria della sua tradizione, quella ebraica, dove la condizione del tempo diventa necessariamente un aspetto interiore, svuotato da ogni convenzione puramente cronologica. Ecco allora prevalere una ben più sano e onesto presupposto onirico, quella rêverie a cui l’autore concede spazio sulla pagina, essendo ben consapevole che soltanto attraverso il sogno del proprio passato è possibile ancorarsi a un presente sempre in movimento, che è poi l’unico e solo tempo a cui ci è destinato il vivere.

 

L’ARCO DEL TEMPO

L’arco del tempo non si tende ovunque nello stesso modo.

A Petak Tivka a me sembrano notti certi pomeriggi.
A Hertzilya il nuovo anno non arriva mai, il 32 dicembre
lo aspettiamo ancora. Al confine con la Syria
e sulla Arba-Shalosh-Shalosh è sempre il 1967:
non si muove una pietra.

Forse non sai che anch’io sono stato innamorato, di una qaballista
del 1913, nata in Manciuria col nome di Shangai-Lil. Ogni volta
che mi ritorna il sogno capisco che è lei dai capelli profumati
dagli occhi grandi e dalle mani affusolate. Ora mi rendo conto,
fumando questo narghilé, che fuori il tempo è andato avanti.
Sarà per questo che non trovo più lei, le mie persone, la mia gente.
Sì, dev’essere per questo che mi ritrovo qui a Mizpé Ramon e non ricordo
altro che cose antiche, donne sbiadite dalla fine del tempo.

Madre mia, non mi svegliare adesso,
ho tanta voglia di riposare ancora.

È un vero e proprio racconto poetico ciò che l’autore affida alla sua opera, in un movimento che a volte sfiora la prosa e che sfugge a qualsiasi semplicistica definizione di genere. Per ripercorrere le tappe di un’esistenza si passa spesso attraverso il richiamo di odori e profumi e Hide ci conduce dentro lo svolgersi di queste sue varie e variabili sensazioni, in un andamento di forte connotazione narrativa che rende alcuni passaggi del suo libro ancora più caratterizzati da uno stile e una lingua fortemente controllati.

 

IL MIO SPAZIO D’INCANTO

Potrebbe essere, ovunque se non fosse per l’odore inconfondibile del cibo polacco che cucina la vecchia Pakin, la vicina di nonna. E per la targa gialla I-4549 della vecchia Guzzi del nonno che sognavamo a occhi aperti.

L’odore del legno vecchio
delle coperte di lana vecchie
delle pagine dei libri vecchi
del cartone delle scatole vecchie
che stanno lì come mondi da aprire…
mi addormenta.

Si sente il pianto e il riso
e i respiri della mia gente in questo spazio. […]

 

MONTE DEL RICORDO

Har HaZikaron, il monte del ricordo, le sei e trenta in punto.
Nel grande cimitero militare, strappa il vento da est, da Zuba e Abu Gosh, stira le bandiere, a non meno di venti nodi.
Non ha nessun odore, mi arriva appena: mille lapidi lo catturano, come in una grande rete, di anime e di gesso. Tutto resta così, fermo, niente è mai passato tra queste pietre, neanche il tempo. […]

Il ricordo è un senso di appartenenza, di comunione con noi e con un mondo che è impossibile porre sotto un controllo vano e controproducente. Da qui il movimento e la progressione umana passano inevitabilmente attraverso un senso che alterna momenti di attrito ad altri di più tenue e dolcissima affabilità. Ecco perciò che l’identità di cui Hide ci fa partecipi è sempre un continuo mutamento libero, per niente soggetto a tratti marcati e definiti di nessuna personalità univoca, e ce lo dice con un accento di rara leggerezza, con quel particolare disincanto con qui l’autore tratteggia la sua immersione nel baule della memoria. Così anche il dolore diventa materia viva e proficua per l’uomo quando può trasformarne la sua specifica afflizione in qualcosa di cui poterne sorridere. È qui, in fondo, il passaggio pieno e maturativo della poesia di Hide, che si muove con onestà e quieta ricerca della verità in questo spazio mentale dentro il quale tutti noi ci ritroviamo a esistere, in un’opera che si pone come lavoro di qualità e prerogativa dello stesso linguaggio poetico.

 

IL BAULE DI ZOLLIKÖN

Ieri, quasi per caso, mi sono trovato in mano la chiave del vecchio baule di famiglia custodito a Zollikön.

Far scattare la serratura,
come tagliare un fendente
l’ultimo sottile filo che mi teneva alla superficie.

Mi sono lasciato
sprofondare,
immerso in uno spazio
muto e senza forma.
Ogni foto una caverna,
popolata da somiglianze e volti.
Ogni oggetto una sinapsi
perduta nel tempo, e poi
pronunce di parole, echi
di musiche, odori
di mani
tutti affollati in questo spazio,
mentale.

Nonostante i morti, e il dolore
che riempiono il baule,
nel mio tuffo, non ho avuto
male, né freddo.

Se mi è mancato il fiato
semplicemente
sono riemerso
e chiudendo il baule
si è riannodato il mio filo.

Ho guardato dalla finestra,
non era ancora buio
e mi andava di ridere.

Potrebbero interessarti