Van Gogh, Primi passi, 1889. X ART PIETRO RUSSO
Van Gogh, Primi passi, 1889.



A differenza degli altri trenta tasselli che compongono il poemetto, se così può definirsi quest’opera allo stesso tempo compatta e frammentata della Rusconi, I padri (Ladolfi Editore, 2012), il testo d’apertura, eccezionalmente, è dotato di un titolo: Padre. Converrà, come è giusto che sia, partire da qui:

 
Non ti voglio chiamare papà
è troppo infantile
viene in mente la pappa e allora
ti mangio ma orfana
sarò forse perduta.
 
Sei uno dei miei padri
quello che più somiglia
quello che ha il mio bios sangue
l’affidato, il preoccupato, l’ottuso.
 
 

Si comincia dunque con un atto primario e fondante come è per l’appunto quello della nominazione, alla quale, significativamente, viene però negata la dimensione ‘infantile’ che per statuto genetico è a questa connessa. La variante papà, tipica dell’idioletto prelogico e prelinguistico del lattante, anzi del poppante, è esclusa perché immediatamente attigua, nella catena dei significanti, alla pappa che implica un’infrazione senza ritorno del tabù del cannibalismo («ti mangio ma orfana / sarò forse perduta»). ‘Padre’, e non ‘papà’. È in questa scelta linguistica che si consuma il dramma, declinato in tonalità minore o minimal, che informa in maniera ossessiva ogni verso della raccolta; un urlo muto di suggestioni munchiane introdotto già dall’interrogazione evangelica dell’esergo: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?

La rimozione degli affetti, del mondo edenico dell’infanzia ascrivibile al lemma papà cede il passo a una ri-costruzione simbolica e imprescindibile della realtà umana che rientra nel dominio del padre ‘chiamato’. Su questo aspetto è il magistero di Lacan a illuminarci: «Il padre è effettivamente il genitore. Ma prima che noi possiamo saperlo da fonte sicura, il nome del padre crea la funzione del padre».[1] È solo per mezzo della parola, cioè l’atto del dare un nome alle cose, che questo fantasma paterno – pienamente simbolico[2] – può essere investito dalla multiplicatio ad infinitum («Sei uno dei miei padri») che caratterizza la silloge. E sul groviglio di nodi che sta al fondo di questa composizione/scomposizione prismatica, la quale non di rado assume la forma dell’enumerazione («Sono col mio settimo padre»; «Mio padre numero quindici»; «Ho conosciuto un padre / è il numero duecento»; ecc.), indugia, anche didascalicamente, il botta-e-risposta che si legge in uno dei primi testi:

 

«Chi sono gli uomini che cerchi?»
Sono i miei padri.
«Già non ne hai uno?»
Ce l’ho, ma non basta
ne voglio un altro diverso.
«E perché ne cerchi tanti?»
Perché ognuno è diverso ognuno
ha spalle larghe occhi pozzo
in cui ficcare la testa.
 

La diversità delle varie proiezioni del padre risponde a un’esigenza di ricerca che in ultima istanza coincide con il desiderio di perdersi nel pozzo di un universo maschile eterogeneo e poco convenzionale, per di più colto nel vivo di una crisi storico-sociale e quindi di una ben percepibile mutazione antropologica («Ho un padre poveretto […] / che voglio ripudiare / […] / Sono sua madre perché è piccolo / e non sa fare niente»). Da qui, il mandato educativo che attiene alla figura paterna risolto, nell’opera della Rusconi, in una prassi pedagogica ossessiva e allucinata che capovolge il senso comune e che si spinge oltre la linea invalicabile delle interdizioni ancestrali. I testi di questo poemetto declinano infatti, senza nessuna inibizione, un’ampia sfilza di oscenità quasi tutte correlate alla sfera del sesso: c’è il padre che «mi si mette dietro / e mi lecca i lobi»; quello che «mi infila nella bocca un occhio / di rana si fa succhiare le dita»; un altro che «ha un pene molto grande»; e poi quello che «vorrebbe fare sesso / e non vuole parlare». Persino il «numero tredici», a cui la Rusconi nell’epigrafe iniziale dedica l’intera raccolta, «insegna / l’amore» con sadismo non dissimulato che si gioca sul filo sottile dell’attrazione/repulsione: «Nemmeno mi sfiora / ma ha occhi di sesso mani di scimmia / labbra che incalzano e tremano. / Il mio padre numero tredici / mi fa venir voglia di fare l’amore / camminiamo a braccetto lo penetro / e afferro con la mia mano».

Poco sostegno o conforto, rispetto a questo leitmotiv dominante, è dato dalle esigue apparizioni del fantasma materno (anche questo scisso in varie tipologie: dalla madre dolce a quella invidiosa passando per la matrigna) disseminate qua e là nella silloge. Su tutte spicca una «seconda madre» che, al pari del soggetto poetante, presenta «un complesso paterno / in digestione perenne». Le due figure parentali sembrano anzi con-fondersi nell’immagine transgender dei padri-matrjoske nelle battute conclusive:

 

«Perché collezioni dei padri?»
Per averne tanti, per averli tutti.
«E ci staranno nella tua stanza?»
Ma io li aprirò li infilerò
uno dentro all’altro come
matrjoske e io la grandissima
li metterò tutti dentro di me.
 

Sintomatica la preposizione dentro dell’ultimo verso, che può riferirsi tanto all’esplicita valenza sessuale che contrassegna la silloge quanto a un possibile atto di introiezione antropofagica (si veda a tal proposito il testo d’apertura), e che nei fatti sintetizza la pulsione infinita a contenere la totalità, definitiva ed esaustiva, dell’archetipo paterno.

Infine, il componimento che suggella la raccolta sembra svelare una chiave di lettura che pone in una nuova luce le trentuno “scene” susseguite, o meglio sovrapposte fino a questo punto:

 
Quando ero piccola avevo due padri
uno non c’era l’altro c’era
e si scambiavano di posto il venerdì.
Bios mi insegnava a nuotare
a spaccare noccioline coi sassi.
Calamus mi insegnava a scrivere
a mettermi in fila per due.
Bios rientrava e sapeva di treni
gli stavo in braccio sulla poltrona.
Calamus lo chiamavo papà
ma per scherzo, e in ombra.
  

rusconi-i-padri1 pietroLa contrapposizione BiosCalamus, ovvero tra il vivere e lo scrivere, sostanzialmente crea l’alterità che attraversa in forma carsica l’opera della Rusconi. Ad eccezione di quest’ultimo testo, il lemma altro con valore grammaticale di pronome indefinito ricorre in ben 9 circostanze con uno stilema sclerotizzato che funge da preciso schema binario: «Mio padre mi insegna a parlare / per la seconda volta. / […] / Quando ero piccola mio padre /– l’altro – si è perso…»; «Mio padre numero quindici / corregge la mia postura. / […] / Mio padre – l’altro – non lo tocco…»; «Mio padre numero novanta / vuole insegnarmi lo scarto. / […] / Mio padre – l’altro – / si versa un bicchiere…»; «Ho un padre un po’ matto […]. / Mio padre – l’altro – il tignoso / è educato…».[3]A questo proposito conviene ricordare, infine, che l’altro padre (rigorosamente in minuscolo) è il titolo di un’elaborazione precedente dei testi da cui in pratica discende I padri, che si può leggere, antologizzata, nel volume sui poeti degli anni Ottanta La generazione entrante.[4]

Mettendo dunque in pratica l’insegnamento di Calamus («mi insegnava a scrivere / a mettermi in fila per due»), il soggetto poetante inscena una costante e nevrotica dicotomia tra il reale (bios) e il simbolico (calamus), come a volere esorcizzare nonché sublimare l’assenza esperita nell’infanzia («uno non c’era l’altro c’era»). Ma nell’universo della scrittura poetica, della parola, l’altro può solo coincidere con il Padre assente: «Quando ero piccola mio padre / – l’altro – si è perso / la mia prima parola», si legge nella seconda poesia della raccolta, la prima senza titolo. E si ricordi che il Padre nominato (e intitolato) nell’incipit è «quello che ha il mio bios»; dunque è questo il padre reale, il primum da cui scaturisce la moltiplicazione dei padri che avviene nella sfera di pertinenza di Calamus. Qui e solo qui è dove si ri-scopre, alla fine e in fondo a tutto, l’intimità familiare del tempo infantile: «Calamus lo chiamavo papà».

 

[1] JACQUES LACAN, Il simbolico, l’immaginario e il reale, in ID., Dei Nomi-del-Padre, Torino, Einaudi, 2006, p. 28.

[2] Ivi, p. 14.

[3] [Corsivi nostri].

[4] Cfr. Matteo Fantuzzi (a cura di), La generazione entrante. Poeti nati negli Anni Ottanta, Borgomanero, Ladolfi Editore, 2012. Le poesie della Rusconi, anticipate da una nota di Anna Maria Carpi, si possono leggere alle pp. 125-131.

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