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Claude Monet, Treno nella neve





Racconti uniti da un comune denominatore. Protagoniste le donne.

 

Anna ha un nome breve e antico. Lo porta senza pensarci molto, paga della sua immediatezza. Conserva chiuso in un libro un fiore di campo di un arancio scolorito, secco e piccolo. È un fiore che trovò fra i riccioli di Efrem un pomeriggio in cui lo aveva atteso tornare dalla campagna e lui non sapeva di avere foglie e fiori fra i capelli. Il libro ha una data di stampa: 1978. Anna tiene pure fra le pagine le due lettere. Almeno una volta l’anno le legge e poi si sente un poco male, un piccolo malessere si impadronisce della sua mente non più libera. Oggi le spedirà ad Efrem aggiungendone una nuova e lui capirà. Sono trascorsi venti anni da quel pomeriggio ma Efrem capirà, oggi e fra altri venti anni. Efrem sa tutto e attende.

 

“Oh mio caro Efrem,

quanto poco amore ebbi quel pomeriggio nel risponderti velocemente. Non salii sulla tua automobile bianca e arrugginita. Preferii lasciarti lì sul portone, un piede sullo scalino, il braccio come a trattenere un pilastro ed io ferma con le spalle al muro. Sorridente perché c’è sempre un sorriso in certi abbandoni, un sorriso perplesso e timido, un sorriso immotivato, un leggero tremito del labbro e la saliva che sale e scende in gola. Te ne andavi ed io che ti chiedevo di andartene, senza di me. La tua giacca blu, leggermente stretta sul corpo magro aveva visto anni prima situazioni diverse, era stata conservata e stirata da tua moglie, ora la indossavi per me. Avevi fatto più di mille chilometri, un viaggio stancante in autostop – erano gli anni dell’autostop facile e liberatorio – per andare a prenderla e presentarti a me non con la maglia arancio che indossavi abitualmente ma finalmente ordinato, impacchettato in una improbabile giacca di gabardina blu, stretta, ma blu, vecchiotta, ma blu. Mi chiedevi di partire con te, o di attenderti anche, mi chiedevi di costruire e abbandonare le mie certezze, quelle che mi facevano vivere. Avevo un cappotto di calda lana spinata, lo stringevo al corpo ancora esile e ti ascoltavo. Le parole erano tante, i progetti non sempre piacevoli pieni di ostacoli ma ti ascoltavo. Il tuo parlare era sempre più concitato, ciò che avremmo dovuto vivere si delineava a mano a mano che le idee si ordinavano nella tua mente apparentemente serena ed io ascoltavo. Quanto poco amore c’era in me quanta confusione e paura. Simili scelte non si fanno stando appoggiati ad un muro, le macchine che corrono troppo veloci lungo la strada vicina, i conoscenti che passano e salutano, il postino che suona ai citofoni, il portone di vetro che sbatte e ribatte. Ero appoggiata al muro della mia casa, ero giovane, dovevo iniziare una vita diversa, lo sapevo ma non quella che tu mi proponevi, niente delle tue parole mi allettava anzi fuggivo, scappavo da te. Il primo pomeriggio era assolato, un vento di fine inverno sollevava i miei capelli li scompigliava, faceva avvicinare al collo infreddolito il bavero. Tu avevi le mani in tasca, un unico bottone stringeva sul tuo torace sottile la giacca blu, due lunghe pieghe la svilivano. Ti guardavo, e non ti amavo. O chissà. L’automobile attendeva, accostata al marciapiedi, di ripartire. E ripartisti. Poche promesse, il mio sorriso che riaffiorava incerto e insieme indispensabile, la tua mano che dietro il finestrino fa l’ultimo cenno di saluto. Ingranasti la prima, guardasti lo specchietto retrovisore, la freccia si accese e il sole accecò il tuo sguardo. La tua mano adesso cercava di ripararlo, la strada era lucida d’acciaio, polvere si alzava sotto le ruote. E scappasti”.

 

“Cara Anna, cara Anna, quante lettere potrei inviarti ora. Quante risposte dovrei darti. Tutte uguali tutte diverse. La sorpresa che le tue parole producono dopo venti anni mi riscalda e mi dice che non me ne sono mai andato e neanche tu sei andata. Ferma al portone di casa tua sarai salita alleggerita: dopo le decisioni ci si sente sgravati e tu avevi bisogno di altri momenti. Momenti e persone che sono arrivate nella tua vita così come attendevi. Le fughe sono indispensabili per alcuni e ne inframmezzano gli anni distruggendo ciò che con difficoltà si è costruito e poi tutto di nuovo si ripete. Io ti proponevo in un istante sbagliato quel che potresti fare oggi chissà, oggi che sei irrobustita dentro o mai… perché non scapperai mai dalle tue certezze ed io non proporrò più né a te né ad altri di lasciar tutto e via. Anche io sono fermo, mi trovi qui infatti e ci sarò in ogni istante perché non te ne sei andata solo tu salendo le scale di casa alleggerita, ma anche io sono andato ingranando la prima nella strada d’acciaio riparandomi dal sole molesto. Siamo stati lontani ed ora ci ritroviamo e siamo sempre noi, migliori, pronti a tutto o a niente che importa? E cosa importa se poco mi amavi? Doveva essere così, tu non ci pensare non fartene un cruccio. Se fossi salita sulla mia automobile quel giorno o un altro, probabilmente ne saresti scesa lungo il viaggio, aperto lo sportello ti saresti seduta lungo il bordo di una strada sconosciuta e mi avresti addolorato molto, come lasciarti sola lungo una strada solitaria? Invece sei salita a casa, ed io sono andato, pure io alleggerito”.

 

Efrem è contento, anche se la malinconia gli si insinua lentamente dentro. I suoi riccioli sono stati tagliati e non trattengono foglie e fiori. Fuori dal finestrino del treno che ogni sera lo porta a casa la campagna è piatta e incolore. Lo sguardo si smarrisce e non trova niente da trattenere. Richiude in uno scatto il finestrino. Prende le lettere, le due vecchie e le conserva dentro un libro nel suo borsone da viaggio, le altre, le due nuove giacciono ancora un poco a riposare sulle sue gambe magre, aperte e sgualcite. Efrem appoggia il capo alla spalliera impolverata, socchiude gli occhi. Ed è buio nello scompartimento solitario.  

 

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