«E in questo piccolo oggi, mentre l’uomo cammina/ nella certezza di un progresso, le montagne/ sembra stiano ferme». Versi emblematici, scelti per introdurre la lettura di “Il verbo di fronte”, nuovo libro di Roberta Dapunt (nella foto di Gustav Willeit), pubblicato da Einaudi. La poesia è lo strumento per «Definire. Dichiarare dunque il sentimento», per attraversare il dolore, addentro un silenzio che «Non s’improvvisa», per stare nell’ascolto, dalla «sommità feroce/ che non conserva nulla di umano», per guardare «nei fatti della coscienza». Leggendo l’impulso d’insieme emerge e s’effonde inebriante, «l’odore dell’anima è unità». L’autrice, (che, anche, attinge al potente «vernacolo dell’inconscio», folgorante “matern lingaz”), considera «l’indifferenza un conscio abbandono di dedizione all’intelligenza», chiama alla «congiunzione delle unità», al «profumo unico della compassione», alla chiara consapevolezza, alla possibilità (sovviene Rilke) di lasciarsi ricadere nell’unanime melodia dall’altezza delle parole, fino a “dimenticare il molteplice per desiderare l’essenziale”.
Partiamo dal titolo: qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Il verbo di fronte”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Il verbo di fronte è per me un raccolto miliare. Un’unità di misura sul mio percorso poetico. Non faccio differenza tra vita e poesia, nel tempo sono diventate per me un accordo, un’affinità per comprensione l’una dell’altra. Ciò che pongo su carta è l’astrazione ineludibile della concretezza che mi circonda. Non c’è contraddizione in questo, è piuttosto un ovvio procedere di ciò che il pensiero isola e con cui si trova in rapporto. La scrittura è l’atto che può renderlo innanzitutto visibile, se poi riuscirà anche nella sua espressione è incerto ogni volta che l’inchiostro tocca il foglio bianco. Credo però di poter dire che sentii anni fa il passaggio ad una laica consacrazione poetica, come a passare per un luogo della mente che da lì in poi non avrei abbandonato. Il verbo di fronte inizia con un atto di coscienza, dove dichiaro di sentirmi in diritto di dolore, mio e di ciò che mi circonda, il percorso dei versi lo racconterà fino alla conclusione del libro, dove chiede all’intelletto di poter scrivere di nuovo e nuovamente il mio prato. È questo un augurio che faccio a me stessa, difficile poterlo soddisfare, poiché riuscire a scrivere il bene e la bellezza rimane per me un’illusione sospesa, ma continuamente desiderata.
Ad oggi, dove sei stata condotta dalla poesia, qual è stato l’insegnamento?
Il corso del tempo, la successione, la sua evoluzione, hanno la facoltà di rendere più chiari anche gli orizzonti, le loro linee apparenti e la loro misura. La percezione delle cose e dei fatti che ci sono esterni, così la percezione degli stati interiori della coscienza. Arrivano ad avere entrambe la stessa importanza. Nel percorso poetico mi sono diventate unità, e questa unità si è fatta contenuto di conoscenza della vita nel suo insieme. La difficoltà sta nel riuscire a raccogliere questo sguardo e renderlo visibile nella scrittura di un verso. Spesso rimane vuota nei silenzi di un foglio, quando invece si risolve nelle loro scritture sento il dono di una poesia. Molti invece i momenti in cui la volontà di raccontare in forma stretta la mia vita diventa condizione di ciò che è necessario. Non solo, ma si sviluppa in questi momenti di forza maggiore, la consapevolezza di un proseguimento che di volta in volta si acuisce. Tuttavia ora l’insieme di questo percorso è determinato più dall’incertezza che dall’esigenza.
“Ascoltami, tu che tra questi fogli, ascolta./ In questo preciso istante muoiono le genti./ Muoiono ora e questo momento/ non è il passato. È adesso.”, con i tuoi versi per chiedere: le parole bastano alla poesia, la poesia è un destino?
È talmente grave il dolore che ci circonda, che provare anche solo a sottrarci per un giorno, è una dichiarazione di estraneità al mondo. La stessa cosa vale anche per la bellezza, lì dove possiamo incontrarla. Non è mai un’esperienza privata, in tal caso diventa una dichiarazione di proprietà. Ogni verso scritto dentro a un quaderno proprio è un gesto rivolto a un pensiero dell’insieme. Il desiderio di capire è cardine per me, in ogni movimento, sguardo e pensiero rivolto all’esterno per poi poterlo fare mio, interiorizzarlo. Farsi capire è lo stesso movimento al contrario. Riportare, nel mio caso in forma poetica, ciò che io credo di aver capito. Chi si esprime in versi non si salva attraverso la propria poesia, poiché rimarrà sempre una misura inferiore a quella poesia che è concretezza a prescindere e quindi successa ancora prima di essere scritta. La persona che sceglie di esprimersi in versi, ha dunque il difficile compito di sviluppare attraverso la necessità di esistenza della poesia stessa, una lingua nuova e viva. Se poi riuscirà a renderla anche universale, vorrà dire che si sarà avvicinato all’autenticità delle cose e dell’essere umano. Pertanto la poesia non è un destino e molte volte le parole non bastano alla poesia. C’è una parola in ladino che mi piace molto: ablësc. È un termine antico e poco conosciuto, si riferisce alla manualità rurale. Indica una misura, una bracciata di fieno che può bastare o meno durante il foraggiamento degli animali in una stalla. Ecco, per me questa è la misura di un abbraccio. Nella riflessione poetica, oltre a essere una parola dal suono arcaico, è anche la figurazione della giusta misura in senso astratto. Abbracciare dunque, tenere tra le braccia un “ablësc” della nostra storia insieme. Questo è ciò che desidero anche per la mia poesia.
scelti per voi
Sentirai in questi versi la vibrazione delle corde vocali
che non cantano, la vibrazione soltanto.
Non ci sarà modulazione di voce,
poiché i sentimenti, questi, sono voce senza canto.
Il tuo ascolto?
Muoverà le frequenze di emozioni interne,
l’inatteso incontro con l’assenza di armonia.
Unico suono il tuo respiro e il mio.
Ascolta.
Tace il compositore su questa esposizione in versi
dell’ipocrisia, dell’umanità civile, l’ambiguità.
Colei che finge virtù e ostenta falsa devozione,
inganna i buoni sentimenti e si annida
in casa di altri, in altre culture. E s’insedia,
si alimenta e sfrutta, influisce e si espande.
*
il verbo di fronte II
Fermai i miei versi sulla richiesta di comprensione
posta sul desiderio di capire e di farsi capire.
Più in là continuo a vedere il mio prato,
l’abitudine dei suoi colori:
la neve, i variopinti fiori, il verde.
Mi riprendo in questo maggio piovoso le mie scritture,
che non ho mai smesso di tenere tese,
seppure pochi gli inchiostri durante un intero inverno.
E un intero autunno prima.
E ancora prima un’intera estate.
Quanto tempo poesia ti ho lasciata
senza riflessione e scrittura. In solitudine sulla parete
non ti ho più letta, non ti ho scritta né corretta.
Chiedo dunque al mio intelletto di proseguire
o meglio, come pormi al di sopra delle mie convenienze.
Guardare oltre a quello che vedo. Attraversare
il mio prato e l’abitudine dei suoi colori
a beneficio del solo verso scritto. Dissolvermi
per coerenza fra la forma e il contenuto,
per poter scrivere di nuovo e nuovamente il mio prato.
*
il verbo di fronte I
La pecora in questi versi
è urgenza di scrittura fatta attendere
negli anni per apprendimento
e maturazione. Preparato sguardo dunque,
a raccontare una creatura da me così tanto amata.
Dice l’asceta di interrogare i grandi testi
dell’umanità, eppure vedo lei mite sulle pasture
e ricompongo ogni volta il mio sapermi.
Io sento di non avere i mezzi, non ho i mezzi
se non lo sguardo e il privilegio di guardarla
congiunta creatura, così al suo incontro su erbe immediate
si impegna in me una taratura dell’animo, e sento
io sento le doti più alte.
In questo ordine mi commuovo, sappiate
solo in questo ordine si sedimenta il mio silenzio,
discrezione esplorata da quando iniziai il mio tempo.
Nello spazio ideale del mio pensiero ho temperate greggi,
il loro illuminato vello e innanzi
il contorno di un muso che precede nello spazio
una condizione di quiete. Ancestrale opposto
del mio essere disorientato.
(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 17.11.2024, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).