cop in difesa umana rec taibbi

 

È un’agape sacrificale ciò a cui siamo chiamati a partecipare attraverso le parole di Alessandro Vetuli. Un incontro a cui non siamo (e non saremo mai) pronti, convito che ci fa scoprire nudi dinanzi al dolore. «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Genesi 3:10). Ma qui siamo lontani da edenici giardini e il passo udito non è un fruscio tra le foglie bensì il frastuono dello spasimo, squarcio sacrificale in una Brindisi dalla carne arroventata, la Brindisi dell’Istituto “Morvillo-Falcone”, la Brindisi di Melissa, Anna, Veronica. (In)difesa umana (ed. La Vita Felice, Ottobre 2013, con prefazione di Davide Rondoni e postfazione di Antonella Bukovaz,) è il filo di Arianna che ci conduce nei meandri di un percorso gnoseologico in cui le parole diverranno parola, unica, sola, inglobata in un “urlo prolungato dei vivi” (pag. 15). Vetuli, in questo itinerario dall’orrido cominciamento, ci chiede di credere. Di credere nella poesia (ed è una richiesta azzardata, vista la tematica che i versi vogliono affrontare e dipanare), di credere nella potenza della parola rigeneratrice, di credere nei grafemi che si fanno bisturi e ci impongono, non più oscurati dai veli della facile compassione e degli odi viscerali, di guardare “La bocca senza più denti della madre / che inghiotte un velo nero / fino al soffocamento” (pag. 15), voragine che fagocita ogni altro dolore, ogni altro fiato. La dimensione corale, che ritroviamo spesso in questi versi, è un continuo rimando a quel dolore individuale che assimila l’Io al Noi e che fa assumere alla poesia di Vetuli un carattere rituale, laddove sembra seguire l’imprescindibilità da un preesistente ordinamento che conferisce sacralità alle singole azioni: “Morvillo Falcone dopo il bombardamento / Golgota all’ora nona / sbarra muta sul calendario / e passanti che lasciano fiori. / Morvillo Falcone unione: / coro dei morti, coro dei feriti, coro dei vivi” (pag. 21). E ancora: “Io ci chiamo Noi / perché questo è il pronome dei traduttori / che debbono trasformare l’azione / e azionare la poesia / perché ha la stessa forma della luce / e la luce ha la stessa formula della parola” (pag. 76). Non sono passi facili quelli che Vetuli ci chiede di fare. Non lo sono soprattutto quando si giunge alla seconda delle cinque sezioni del volume, Cella d’isolamento, in cui la parola passa a Caino: “Aiutami. / Qui è tutto uno stridere, è tutto un urlare / è tutto uno stringere mazzi di capelli castani / che non conoscevo. / Qui è tutto un linciaggio pronto per l’uomo sbagliato. / C’è un Dio da qualche parte / che passa continuamente le sue unghie / sulla lavagna del cielo / per farmi capire che suono ha la colpa.” (pag. 26). È tra queste poesie, scevre da sovrastrutture metriche e retoriche, spigolosamente visionarie, tracciate con precisione chirurgica, che ci sentiamo smarriti, quasi infastiditi, martellati da un unico pensiero: il rifiuto per la parola concessa all’assassino. Facile sarebbe giudicare, ma in questi versi, come scrive Antonella Bukovaz, “C’è un grande senso morale senza giudizio morale. […] Sempre in agguato, perché semplice e consolatorio è lasciarsi andare agli umori del turbamento. Alessandro è passato oltre questo tranello”. Cosa ci  si può aspettare adesso da Vetuli? Abbiamo toccato con mano le piaghe del dolore, abbiamo ascoltato chi non dovrebbe avere voce… Cosa ci chiede ancora di affrontare questo giovane poeta? Ci chiede molto, a tratti troppo, e lo capiamo subito dalla poesia scelta come traccia-guida verso una rinnovata contrazione cardiaca, inaspettata non perché inattesa (siamo nel cuore del Verbo, sospettiamo già cosa ci attende oltre quest’ulteriore varco) ma perché, ancora una volta (e sempre), semplicemente inesplicabile: “Ho scritto lettere piene d’amore. / Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita.” (G. Ungaretti). Il sentiero procede: parlano Melissa, Anna, Veronica, la Madre, infine Noi. E il grumo si scioglie: “Le corone di spine liberate sull’acqua / la brutta copia del tema, tutto questo non conta. / La regata di barchette di carta / la bella copia del tema / e un volontario della classe / che venga alla lavagna / e ci dica una volta per tutte / come si scrive la parola «Vita»: / questo conta / e le voci più umane / che mi hanno dettato questa poesia.” (pag. 73). La fine dell’itinerario è giunta; tutte le parole conglobate in un unico lemma, il solo, l’unico (ora lo sappiamo): Vita.

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