Jack Vettriano, Heartbreak Hotel x LETIZIA DINA
 
Il senso negato di Letizia Dimartino
Racconti uniti da un comune denominatore. Protagoniste le donne.

 

Dina è una donna minuta come il suo nome.

La sua piccola statura non le ha mai procurato problemi sconosce gli oggetti visti dall’alto, le manca un’altra visione della realtà, solamente questo. Ha sul comodino laccato di bianco una vecchia sveglia d’argento annerito e uno specchio rotondo su cui guardarsi tutte le volte in cui crede di perdersi e nel quale si ritrova – volto ingrigito senza sorriso. Il borsone è pronto, spalancato sulla cerniera ma nascosto nel misero armadietto. Le sue gambe tremano un poco quando inghiotte l’ultima pillola rossa. Fuori le luci illuminano una nebbia appena addensatasi che spinge pesantemente sui vetri. Il ticchettio della sveglia si ingigantisce.

“Gentile dottore Accorsi,

quanta fatica nel decidere, dico solo decidere, di scrivere queste poche parole. Sono necessarie, però. Ci conosciamo da tempo, da troppo tempo; non ci vedremo più perché me ne andrò e non tornerò. Nessun malanno improvviso mi indurrà a tornare. Cerchi di credere a quanto le sto dicendo. Quante volte sono venuta a cercarla, mia unica speranza! In certe mattine gelide di gennaio che tutto era trasparente e vitreo mentre la mia anima era calda e piena. O in certe primavere appena abbozzate in cui le dicevo di aver sentito per tutta la notte stornire le rondini – il suo sorriso dottore come lo ricordo bene, un lieve sorriso di condiscendenza. O ancora gli arrivi timidi e insieme tumultuosi (dentro, dottore, ero tutta un fragore) nelle sere d’estate quando le finestre erano spalancate sul giardino, gli altri ammalati sembrava mi attendessero lì seduti immobili sotto una luna poco amata, sì poco amata, perché non splende certo per chi sta male, lo sappiamo bene noi che di certe nottate godiamo poco e il cielo è nero e basta, solo nero e attendiamo la luce del sole per meglio mettere ordine nel corpo – una pillola alle 9, 30, quella verde dopo un’ora, a pranzo la flebo e poi… poi… E invece parto allo stesso modo in cui sono sempre partita con il mio borsone pieno di piccole cose, sempre le stesse che ormai conservo in fondo all’armadio pronte per essere arraffate nei momenti di panico, il cappottino grigio scuro e la sciarpa più volte avvoltolata al collo. Nessuna medicina in tasca, solo un biglietto di ritorno e lo specchio, quello sì, per ritrovarmi durante il viaggio e poter dire che sono io, solo io, quella donna che si specchia, vera, con ciglia diritte, due lunghe pieghe ai lati della bocca, due piccoli nei sul mento, un leggero cedimento che segna i contorni del viso, capelli di un improbabile biondo e occhi, dio dottore, che occhi.

I miei occhi lei li conosce. Non glieli ricordo. Adesso sono gli occhi gonfi di chi vuol scappare, di chi ha pensato per intere notti, di chi ha desiderato, di chi ha immaginato un tragitto conosciuto e lo ha arricchito di colori, finalmente. Lei sarà contento nel leggere questa lettera, forse la attende da tanto tempo, è la risposta al suo lavoro, un lavoro che non le ho mai invidiato. Invece lei ha invidiato a me le risate improvvise, rare, ma ampie, le risate che portano alle lacrime, lacrime che scendono giù velocemente e non vengono asciugate subito. Si lasciano scendere per il viso, libere senza vergogne, le lacrime che ridono e non certo le lacrime dei pomeriggi solitari trascorsi davanti alla TV accesa – perché e per chi ? – e il mondo cade e ricade e ricade e loro corrono sul collo, solleticano il petto bagnano il golfino e bisogna subito asciugarle prima che arrivi l’infermiera. Ha invidiato i miei ritorni a casa sul pullman per meglio io godere i prati oltre il finestrino, per sentire sbattere la vecchia tenda impolverata sul viso, per sobbalzare sulle troppe buche di una strada dissestata. La lascio e lascio pure sul comodino un mia fotografia non recente, risale ai tempi in cui mi conobbe per la prima volta ed io venni affranta e spezzata perché lei potesse ricucire i pezzi di un corpo frantumato. Vado con la certezza di non tornare, il suo lavoro di ricamo è ultimato. Mi resta il dolore della sua ultima immagine, la sua bella figura bianca stagliata in fondo al corridoio, il busto appoggiato alla vetrata fredda, lo sguardo perso oltre i confini di questo luogo sventurato.”

 

“Grazie signora Dina,

la sua lettera è bellissima, l’ho gradita. Mi è giunta inaspettata quando avevo già sulla scrivania la foto portatami dalla infermiera di turno. Succede spesso che gli ammalati mi lascino qualcosa di loro, piccoli doni significativi che io conservo e a cui penso ogni tanto nei miei rari giorni di calma. Lei non mi ha chiesto, andandosene, niente ma io faccio finta che una sua richiesta ci sia fra le parole addolorate che mi ha inviate e le rispondo. Rispondo alla sua domanda taciuta: no, mia cara Dina, non l’abbandonerò mai. Resterà con me seduta sulla sedia grigia della sua camera, seduta sulla panchina verde del giardino spoglio, seduta sulla poltrona sfondata del corridoio, seduta sul lettino del mio studio, seduta sul divano della camera d’attesa, seduta sul sedile del pullman che la portava qui in quelle mattine che io e lei conosciamo bene. Vada pure ora che si sente libera e capace di andare e non torni in questo luogo sventurato, lasci che ci resti io a ricucire l’anima degli altri. La sua è perfetta e non ha bisogno di nessuno. Parola mia. Vada e mi invii una fotografia recente del suo sorriso ritrovato. Vada.”

Il dottore Accorsi si scosta dalla vetrata, la spinge ed esce sulla veranda impolverata. Si appoggia alla ringhiera. Sotto, due pazienti parlano lentamente, poi si accorgono di lui e con la mano lo salutano, contemporaneamente. Nella tasca ha la fotografia di Dina, la foto degli anni passati. La prende, la appallottola, la ripone spiegazzata nella tasca del camice. Il tramonto è aranciato dietro la collina, in fondo più a est il rigo del mare lontano si intravede confuso. Il pullman si ferma rumoroso, un paziente vi sale trascinando una piccola valigia. La vetrata, per una improvvisa folata di vento, sbatte alle spalle del dottore   che sussulta. Poi è silenzio.

 

 

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