Infante e le suggestioni neoromantiche alla ricerca dell’autenticità

INFANTE FEDERICO, The Last Light, 2014, AcrIlico su tela, 121x254 cm
Federico Infante, The Last Light, 2014, AcrIlico su tela, 121×254 cm

Reduce dal grande successo a New York in seguito alla sua mostra personale in una delle più attive gallerie d’arte di Chelsea, Federico Infante arriva ora a Varese con una ventina di tele anche di grandi dimensioni.  Cileno, trentatré anni, per la sua prima mostra personale europea Federico Infante avrà a disposizione l’intero spazio della galleria varesina Punto sull’Arte (Viale Sant’Antonio 59/61). La mostra sarà inaugurata sabato 12 marzo 2016, dalle ore 18 alle 21. Sarà visitabile fino al prossimo 30 aprile 2016.  Inedito fino ad oggi in Europa, ma con all’attivo numerose mostre di successo in Cile e negli Stati Uniti, l’artista ci accompagna attraverso un lungo e avventuroso viaggio dentro il suo subconscio. Da lì, infatti, muove Federico Infante per arrivare a quello che ha ben chiaro come unico scopo dell’arte: l’autenticità. Parte dal caos per attingere alla ragione, in quello che si potrebbe definire un percorso di autocoscienza. Incomincia dai fondi, trattando la tela con strati di pittura acrilica e poi togliendola, grattandola via, guidato esclusivamente dalla potenza del gesto. Quando la tela è un amalgama di materia e di colore, passa alla seconda fase e cerca di leggere in quel caos dei segni. E da quei segni partirà poi alla ricerca di un personaggio, di un’ambientazione, di una storia. Ecco allora risuonare nei suoi lavori echi della pittura gestuale americana, voci più antiche ancora che riportano ai meccanismi surrealisti, ma anche bisogni e ansie squisitamente contemporanei. Indagare, come spiega lui, “la tensione tra il subconscio che ci guida e la logica con cui cerchiamo di dare un senso alla nostra esistenza”, è la chiave che gli permette di entrare a stretto contatto con la parte più vera di se stesso. Ed è anche il motivo per cui, davanti ai suoi lavori, restiamo per un istante interdetti, come se qualcuno avesse aperto la porta del nostro cuore per frugarvi dentro.

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Nato in Cile trentatré anni fa, Federico Infante si può annoverare tra gli artisti più promettenti del panorama internazionale. Lavora negli Stati Uniti, ha collezionisti in Francia, in Belgio, in Germania e in Spagna e per il suo debutto italiano ha scelto una galleria di Varese, Punto sull’Arte, del tutto in sintonia con la sua filosofia. La sua creatività, infatti, si esprime in perfetto equilibrio tra il linguaggio della tradizione e le inquietudini più sottili e insidiose della contemporaneità. I suoi personaggi, soli e pensierosi su orizzonti sterminati, portano in sé la forza propulsiva dell’eroe romantico, ma anche la furia irrazionale dell’espressionismo astratto – resa soprattutto dai paesaggi degli sfondi. Quelli di Federico Infante sono dipinti che richiedono una lettura lenta e meditata e tuttavia capaci di toccare immediatamente le nostre corde più profonde, conducendoci attraverso percorsi di libere associazioni che partono dal subconscio dell’artista e arrivano dritte al cuore dello spettatore.
Giovane ed entusiasta, Federico Infante è già un artista così maturo da aver individuato, con precisione chirurgica, quello che per lui è lo scopo assoluto dell’arte: l’autenticità. E per raggiungerla si muove attraverso un processo complesso e precisissimo che partendo dall’istinto e dal caos arriva a rintracciare una ragione e un ordine che diano senso alla nostra esistenza. Forse proprio per questo le sue figure, sebbene immerse in paesaggi spesso difficili da leggere, ci appaiono così solide e rassicuranti. Perché lui ce le racconta proprio nell’attimo perfetto in cui hanno trovato la risposta, raggiunto la certezza. E davvero mai come in questo momento storico l’umanità ha avuto bisogno di risposte. E di certezze.
In questa intervista, l’artista si racconta con lucida sincerità. Dalla passione per l’arte, nata nell’infanzia, fino al senso stesso della sua pittura.

Federico Infante, Glow, 2013, Acrilico su tela, 121×76 cm

AR – Raccontaci qualcosa di te. Quando hai cominciato a interessarti all’arte? È una passione nata da bambino?

FI – Ricordo che quando ero bambino trascorrevo ore – qualche volta la giornata intera – a disegnare. Allora guardavo le immagini dei libri d’arte, del libri che insegnavano a disegnare, con lo scopo di imparare a creare la giusta prospettiva e di apprendere l’anatomia della figura umana. Il disegno era il mio mondo. Ricordo il senso di divertimento e l’assoluta soddisfazione quando il risultato appariva migliore delle aspettative, anche migliore dell’originale. Ero ossessionato dall’idea di imparare e di continuare a migliorare.
Ero un ragazzino tranquillo. Ricordo lunghe conversazioni interiori, con me stesso, sulle immagini e sulle figure che un giorno sarei stato capace di dipingere.

AR – E la tua famiglia? Ti ha sostenuto?

FI – Mia madre ha avuto un ruolo fondamentale nel mio sviluppo artistico quando ero un bambino. Era sempre molto emozionata quando andavo a mostrarle un disegno finito. Mi ha incoraggiato a frequentare una scuola d’arte, mi ha sempre sostenuto e mi ha aiutato a trovare la mia voce personale, a evolvermi nel mio lavoro.

AR – Qual è stata la prima opera d’arte davanti alla quale ti sei davvero emozionato?

FI – Tra i pittori che ho studiato quando ero ragazzo, avevo un’ammirazione speciale per Jacques Louis David, Caravaggio e Andrea del Sarto. All’epoca non avevo la possibilità di viaggiare molto e così i libri erano diventati il mio museo. Ogni volta che scoprivo un nuovo pittore che possedeva gli elementi visivi dei quali la mia giovane mente era alla ricerca, era per me un’esperienza affascinante. Ma senza dubbio l’immagine che più di tutte mi ha colpito ed emozionato è stata “L’angelus” di Jean-François Millet.

INFANTE FEDERICO, The Greenhouse, 2014, AcrIlico su tela, 121x177 cm
Federico Infante, The Greenhouse, 2014, AcrIlico su tela, 121×177 cm

AR – Tu utilizzi una tecnica e un procedimento molto particolari. Puoi spiegarceli nei dettagli?

FI – Comincio con un gesto espressionista, quello di ricoprire la tela con diversi strati di pittura acrilica per poi grattarli via. E ripeto questo processo diverse volte. Non pianifico le immagini in anticipo. Quello che cerco di fare è essere più vigile e distaccato possibile rispetto al risultato: solo in questo modo sono in grado di esprimere il mio subconscio, la parte di me non soggetta a processi logici. A questo punto reagisco a quell’atmosfera astratta ed espressionista andando alla ricerca degli elementi che sono emersi, tra lame di luce e suggestioni di paesaggio. In questa maniera ogni dipinto riesce a mostrare la sua individualità più autentica, la sua unicità.
Solo qui comincio ad aprire il processo alla ragione – alla parte di me che cerca di interpretare la realtà – per decodificare quello che il mio subconscio ha espresso e renderlo tangibile. Poi inizio a dipingere gli elementi figurativi appropriati a questa atmosfera. Spesso si tratta di una figura immobile e sola, oppure di uno scorcio di architettura che emerge dall’oscurità, o ancora di un cielo sterminato che implichi la presenza di uno spettatore invisibile.
Attraverso questo processo riesco a indagare la tensione tra il subconscio che ci guida e la logica con cui cerchiamo di dare un senso alla nostra esistenza quotidiana per comprenderla.
Nonostante si tratti di una dinamica profondamente individuale, la tensione e l’ambiguità delle circostanze che spesso emergono fa sì che questa esperienza sia per certi versi condivisibile con chiunque si trovi davanti al quadro.

AR – Guardando il tuo lavoro vengono alla mente i grandi nomi del Romanticismo. Caspar David Friedrich, in primo luogo, e per certi versi anche Arnold Böcklin. È un’interpretazione corretta?

FI – Sì, è un’interpretazione corretta, ma in termini esclusivamente visivi. Non sono particolarmente attratto dai concetti che stanno alla base del Romanticismo. Secondo me questa associazione nasce dallo stato esistenziale delle figure dei miei lavori. Io cerco le storie dentro la mia mente: l’atmosfera e la figura contemplativa sono una conseguenza della persona che sono io. L’onestà che cerco attraverso il mio processo creativo può trovare dei collegamenti con diversi movimenti artistici. La parte astratta dei miei lavori, per esempio, ha un profondo legame con l’espressionismo astratto, mentre la ricerca psicologica del subconscio è vicina alla ricerca del surrealismo.

AR – Si può dire che il tuo lavoro si muova in un ambito essenzialmente tradizionale. Necessita di tempo non solo per essere realizzato, ma anche, da parte dello spettatore, per essere assaporato, fatto proprio e compreso. In un momento storico come questo, caratterizzato dal bombardamento di immagini facili e immediate anche in campo artistico, che cosa significa per un artista lavorare così?

FI – Quando si è giovani è molto difficile, perché l’istinto porta a cercare risposte immediate. Le più veloci possibili. Ma sono orgoglioso e grato di aver raggiunto questo risultato: la capacità di guardare il mio lavoro, e il mio procedere, da una certa distanza. Per me l’atto di esprimermi attraverso la pittura è diventato un viaggio, una battaglia per l’autenticità, per il mio senso di identità. E questa battaglia è rivolta proprio contro le influenze di un mondo che offre soluzioni troppo facili e veloci alla complessità delle nostre menti. Faccio un esempio: occorre un certo lasso di tempo per impadronirsi del semplice atto di reagire a qualcosa di bello. Perché ne siamo attratti? Perché risuona dentro di noi? Capire e analizzare perché siamo incantati da un certo tipo di bellezza dovrebbe essere un procedimento paragonabile a quello che serve ad un artista per imparare a disegnare…

AR – Qual deve essere secondo te, oggi, il ruolo dell’artista, considerando ciò che sta accadendo in questo momento nel mondo?

FI – La battaglia per l’autenticità, dal mio punto di vista, è fondamentale per un artista giovane. Noi reagiamo alle informazioni che ci arrivano dall’esterno, non possiamo pensare di creare dal nulla: trasformiamo queste informazioni in messaggi e simboli per la nostra generazione. Così, se ci dedichiamo a una ricerca autentica della nostra voce più personale, significa che dobbiamo avere gli occhi e le orecchie ben aperti alle informazioni che la realtà ci sta inviando. Noi le filtreremo, le trasformeremo e le faremo diventare arte.

AR – Raccontami qualcosa sulle opere che sono in mostra oggi a Varese.

FI – Le opere in mostra oggi sono un perfetto esempio di ciò di cui abbiamo parlato finora. Ognuna di essere rappresenta un momento e un processo creativo unici nella mia vita. Ogni immagine, con la sua atmosfera astratta, è il punto d’arrivo di un profondo viaggio dentro me stesso che intraprendo ogni volta che comincio a dipingere. Il risultato è che tutte queste opere sono indipendenti, ma, allo stesso tempo, hanno anche una forte coerenza tra loro.
Il senso del titolo, “Possiamo vedere il vento”, è legato al fatto che i soggetti dei miei lavori sono un evidente riflesso di quel processo e si trovano, dunque, al centro di un profondo momento di introspezione. Cerco di visualizzarli nell’istante in cui, soli e immobili, sono travolti da una consapevolezza stupefacente, qualcosa di straordinario che solo loro possono vedere.

INFANTE FEDERICO, Toward the Sun, 2014, Acrilico su tela, 121x254 cm
Infante Federico, Toward the Sun, 2014, Acrilico su tela, 121×254 cm

Federico Infante nasce nel 1982 a Santiago (CILE). Ha frequentato la Finis Terrae University a Santiago (Cile) e la School of Visual Art a New York. Cresciuto a stretto contatto con il meraviglioso paesaggio cileno, ha sviluppato fin da giovanissimo un forte senso di contemplazione. Le sue opere sono uniche nella loro giustapposizione di astrazione con sezioni figurative e dettagliate immagini architettoniche. Il suo lavoro fa parte di collezioni private negli Stati Uniti, in Europa (Francia, Belgio, Germania e Italia), in Arabia Saudita e a Singapore. Nel 2015 ha illustrato l’Edizione di “Lolita” di Vladimir Nabokov pubblicata da The Folio Society. Vive e lavora a New York.

 

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