Intervista al poeta Claudio Damiani

claudio damiani
foto di Dino Ignani (www.dinoignani.net)


 

“giungere alla vita per riportare l’ordine / o qualcosa che è stato perduto, riconquistarlo, / una missione che ci sfugge, eppure lo sentiamo, / sentiamo che andiamo, anche nelle continue cadute, / verso un bene lontano sempre più vicino”. Tutto quello che occorre per gustare la felicità, nel luogo e nel momento adatto, è un cuore semplice e modesto, il pensiero di Ralph Waldo Emerson leggendo i versi di Claudio Damiani, vincitore, in un favorevole clima settembrino, del XLIV  Premio Brancati Zafferana e del  XXV Premio Camaiore, con il poema “Il Fico sulla Fortezza”, edito da Fazi.  

Quali sono i ricordi legati alla tua prima poesia?

Molto vaghi. Ho cominciato a scrivere con un certo impegno verso la fine del liceo cose avanguardistiche illeggibili, che andavano allora. Che però mi piacerebbe rileggere, ora.

Quali i poeti che ami e, più in generale, quali le letture vitali per la tua formazione?

I poeti che amo sono ovviamente tantissimi e non posso fare qui un elenco. Quelli più importanti per la mia formazione sono stati soprattutto Petrarca, il padre della nostra lingua, Orazio e Pascoli, gli elegiaci latini e i grandi cinesi della dinastia T’ang.

“Poesia non è alcun luogo concreto sulla carta geografica dell’immaginario e della mente dell’uomo. Essa è, piuttosto, come un meridiano: una linea ad un tempo verissima e inesistente che indica una direzione attraverso molti territori. Su questa linea a ciascuno è data la possibilità di tracciare il proprio cammino verso quel sapere e quel sentire che appaiono sempre più lontani da chi è assediato dalla civiltà del rumore e del fatuo, e in essa si perde”. Con Paul Celan per chiederti qual è la tua più intima definizione di poesia?

Questa di Celan mi va bene, anche se più che a una linea immaginaria e dritta mi viene da pensare a una linea molto reale, esistente anche se interna e segreta, e non dritta, una via interna che è il succedersi e generarsi stesso delle cose e del tempo, e il nostro stesso esistere, ciò che i cinesi chiamano Tao.

Oggigiorno qual è (o quale dovrebbe essere) l’urgenza del poeta? 

Credo che l’urgenza del poeta, quella vera dico, non abbia tempo. Continuando quel che stavo dicendo prima potrei dire che l’urgenza del poeta non ha tempo, perchè lo crea il tempo. Ma non nel senso che la poesia crea il mondo, ma che è fatta come il mondo, e che la sua urgenza creativa è la stessa con cui si crea ogni giorno, o diciamo ogni istante, il mondo. È qualcosa di molto naturale e banale anche, quotidiano.

“Così la strada ancora va, una volta, / e ancora andrà, per sempre. / In alcuni punti è franata, non importa, / si crea un sentiero più piccolo / che ricollega i punti”. Con i tuoi versi per chiederti quali sono, del tuo nuovo libro “Il fico sulla fortezza”, i messaggi che consideri essenziali per il lettore? Cosa auspichi possa scegliere di preservare, scorrendo lo sguardo tra le tue confidenti pagine?

Ecco, la strada che hai nominato ora è la via di cui parlavo prima, il Tao dei cinesi. Quella strada va sempre, non s’interrompe, non sta dopo il tempo, ma prima, o è essa stessa il tempo. Il tempo non è una serie di istanti, ma sono le cose stesse, gli esseri che si succedono, in catena. E il messaggio di questo come forse di altri miei libri è che questa via invisibile, come il meridiano di Celan, esiste, e da lei proviene tutto ciò che esiste, e tutto ciò che esiste è, per lei, sacro. Non tanto la via si manifesta, nel “Fico sulla fortezza”, quanto gli esseri che camminano in essa, sono loro che mi parlano, e mi calmano. Esseri anche umili, piccoli, e apparentemente muti, come un fico cresciuto sopra una fortezza o una lucertola entrata in biblioteca, o un atomo di idrogeno, anche. Parlo con loro e mi calmo, perché vedo la loro consapevolezza, e fierezza, e coraggio, capisco che su questa strada stiamo facendo qualcosa di importante, stiamo capendo. Forse sta succedendo questo, che tutti, che eravamo separati, stiamo riavvicinandoci.

Ti porgo un quesito usufruendo (ancora) dei tuoi versi: – Che moriremo / questo lo sappiamo / ma che non c’eravamo già prima / questo non lo crediamo, / e se prima c’eravamo / è credibile / che moriremo?

Siamo tutti collegati, esistiamo in noi stessi come forme, forme compiute e chiuse, persone, ma al tempo stesso tutte le forme sono tra loro collegate, e la loro esistenza è in questo collegamento, come gli anelli di una catena. Se pensiamo al tempo come a una catena, proprio per la direzionalità da passato a futuro, ci viene più facile vedere gli anelli che ci precedono, mentre quelli che ci succedono li vediamo virtualmente, come se fossero tratteggiati, disegnati con trattini. È la visione, se pur annebbiata, degli anelli precedenti, che ci prospetta i successivi, e ci fa dubitare della morte.

In che modo è possibile (o potrebbe esserlo diffusamente) “sentire la sacralità di noi e di tutti gli essere viventi”?

Una via maestra è l’arte, l’arte proprio questo fa: ci fa sentire la sacralità degli esseri, ci fa sentire viventi tutti gli esseri, anche i non viventi. Ma anche la scienza, che è, come l’arte, conoscenza e imitazione della natura. Scienziato, oltre che filosofo, era il grande Teilhard de Chardin, gesuita, che scoprì che la vita veniva dalla materia, ma non perchè la vita era materia, ma perchè la materia era già vita (mater materia).

Scegli una tua poesia, per salutare i lettori.

Saluto i lettori con una breve poesia del libro sul tema della sacralità, e sulla fermezza (fermezza della mano, dell’occhio) che comporta:

Tu sei venuta come un uccellino
sulle mie mani
io stavo molto fermo, immobile
per questo sei venuta
non muovevo neanche le palpebre,
tu hai becchettato un po’
poi ti sei guardata intorno,
io sentivo le tue zampette morbide
sulle mie dita,
io avrei potuto prenderti
nelle mie mani, avrei potuto stringerti
ma sono rimasto immobile
mentre ti guardavo non respiravo
tanto ero sorpreso
della tua bellezza.

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