Cosimo Calamini per l'Estroverso

Parola d’Autore

L’importanza della solitudine, a volte, la lasciamo in un angolo. Non ci piace pensare che essere soli faccia parte della nostra esistenza. Chi è solo risulta, nell’immaginario collettivo, triste, mogio, stanco, affranto, per dirla con gli adolescenti: sfigato. Sono sincero, per anni anch’io ho sempre rifuggito, come peste immonda, la solitudine.

Ero un bambino aristotelico, ovvero un piccolo animale sociale, pronto alla compagnia. Ma, via via che crescevo, sentivo sempre più che quell’ estroversione era legata ad una fragilità di fondo che mi portavo dietro, vero e proprio vulnus: la paura della solitudine. Forse anche per questo, durante la prima fase dell’adolescenza, nonostante mi dicessero che ero portato, scrivevo poco.

Poi ho scoperto il vero significato della parola concentrazione, prima nei fatti, e poi nella sua etimologia, in quel κέντρον, che significa aculeo, punta, centro. Stare dentro un ombelico ben piantato nel mezzo della pancia degli eventi.

Tutto cominciò un giorno d’autunno quando mi dissero che al cinema facevano un film dal titolo: L’Attimo Fuggente.

All’epoca mi ero messo in testa di essere un grande appassionato della settima arte e cominciai, in modo disordinato, a guardare qualunque film intuissi essere considerato sperimentale, autoriale. Ricordo ad esempio un’estenuante maratona pasoliniana, con tanto di Teorema e Porcile, due tra i film più ostici del regista, una maratona sostenuta da tazze di caffè e sforzi indicibili per rimanere sveglio. Avevo quindici anni, non capivo molto. Però cominciai ad accarezzare, inconsapevolmente, l’idea della solitudine, infatti vidi tutti i film da solo. Nessuno, della cerchia di amici o famigliari che gravitavano intorno a me, era in grado di sostenere un tale sforzo psicofisico. Ma insomma, torniamo a L’Attimo Fuggente, Dead Poets Society, per citarlo col suo vero nome. Andai a vedere quel film con grandi aspettative. Non rimasi deluso. Ne uscii esaltato, inebriato da quel professore che saliva sulla cattedra, da quei ragazzi che superavano le loro incertezze grazie all’afflato della poesia, alla condivisione del loro privato.

Cominciai a cercare dei Professor Keating in ogni insegnante, ma non solo, in ogni adulto che mi si parava davanti. Invano. Tutti alla fine si rivelavano per quello che erano: esseri umani con contradditori caratteri. Non c’era nessuno che somigliasse a lui. Il mio mito. Come potevo risolvere questo problema?

Pensai di andare direttamente sul pratico. Ovvero convinsi i miei amici del quartiere a mettere su una specie di recita in cui loro avrebbero interpretato i ragazzi del collegio e io avrei fatto il professor Keating. Se non trovavo nessuno che somigliasse al professor Keating, pensai con invidiabile acume, lo sarei diventato io. Provai quindi a vivere l’incredibile esperienza di essere un mitomane e un mito allo stesso tempo.

Per mettere in scena questa specie di delirio keatinghiano, passai un pomeriggio intero con foglio e penna davanti agli occhi, cercando di adattare a quei cani patentati che eravamo io e i miei amici, parole di Walt Whitman, di Henry David Thoreau e qualche frase improvvisata da me.

Di quel pomeriggio ricordo i mobili di ciliegio da cui era composta all’epoca la mia cameretta e un tepore avvolgente, quello della concentrazione. Κέντρον.

Ma faccio bene a ricordarmi solo quel tepore e poco più, perché il risultato del mio elaborato, fu a dir poco imbarazzante: un delirio pretenzioso e mal dialogato, fatto d’improbabili poesie e sinistre strampalate.

Quello, però, fu il primo pomeriggio passato, da solo, a fare qualcosa che non era dovere, non era studiare qualcosa di commissionato, no, era creare un mondo altro con a disposizione inchiostro e carta. Insomma avevo cominciato a scrivere. Provammo una volta, ma fu un fiasco colossale: gli amici, dopo avermi dato retta per un pomeriggio intero, mi salutarono con una pernacchia e una cospicua quantità di sonori sberleffi.

Ma non mi arresi e riscrissi l’elaborato, cercando stavolta di convincere altri amici – i miei compagni di classe – a mettere in scena quella ridicola pantomima. Un altro fiasco. L’idea non funzionava, questo era chiaro. Forse dovevo abbandonare l’utopia di replicare, come in una sorta di loop idiota, quel film. Provai allora a scrivere qualcosa di originale. Di nuovo quel tepore, i mobili di ciliegio e di nuovo un fiasco.

Così decisi di abbandonare: complice anche il fatto, diciamola con onestà, di aver trovato una fidanzatina. Ci volle qualche tempo per un nuovo tentativo: il tempo dell’università. Ma questa è un’altra storia.

Negli anni, avrò visto L’Attimo Fuggente decine di volte; spesso mi sono preso anche critiche e bonarie infamate, perché lo metto sempre nella lista dei miei film preferiti. Ma per me non è un film come gli altri.

Lo riguardo e sempre penso a quel tepore, a quella stanza fatta di legno di ciliegio, al momento in cui scrissi qualcosa, in cui per la prima volta superai la paura della solitudine.

E mi sento bene.

 

 

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