rubrica, parola d’autore

La scrittura immagino che sia un destino. Per me è andata così, si è annunciata in mille modi, senz’altro con la passione per i libri, la lettura. Con le scelte sbagliate, la solitudine, gli errori, il dolore. Oggi capisco che erano solo indizi, che dovevo incontrarla (la scrittura). Leggevo libri da grandi, per così dire, da ragazzina, amavo istintivamente tutto quello che era proibito, quello che non si doveva leggere. Forse così è un po’ per tutti. Una forma di resistenza all’opportunismo e alla normalità che ammetto mi ha procurato un mucchio di guai in seguito. Vedi le scelte sbagliate, ma non lo erano. Ho cominciato a amare il censurabile. Lessi Henry Miler a dodici anni, ad esempio. Ma prima incontrai per un caso il diario di Christiane Felscherinow e mi cambiò la vita.  Più che altro mi prestò uno sguardo, uno sguardo che mi si appiccicò addosso, una specie di pietà che mi costringeva ad amare quello che non solo poteva essere censurabile e scandaloso, ma anche marginale, secluso. L’abiezione per me fu una tentazione continua, la tentazione di assolverla e di guarirla. Avevo solo otto anni. E non sono mai cambiata. La scrittura oggi so per certo che è stata il mio destino, la sola compagna che mi è rimasta, non è retorica. È effettivamente così. Cominciai a scrivere i diari, poi i temi al liceo, non ero consapevole tuttavia di quanto avrebbe potuto contare un giorno quel gesto: scrivere. Scrivere fino a diventare uno status. Oggi la scrittura ha preso tutto il mio tempo, a volte ho la sensazione che dove lei ha vinto, ha scalciato tutto il resto, il mondo degli umani. Il mondo vero non esiste quasi più, perché ha vinto lei. Dove lei vince, perde tutto il resto, o perlomeno io lo perdo. Cosa mi aspetto dalla scrittura? Non lo so. Non cambierò il mondo, presterò il mio sguardo a mia volta,  sapendo che di solito io vedo la luce dove per molti ripara l’ombra. Così la mia poetica è un po’ quella dei perdenti, dove in realtà ho intercettato mille risorse, il miracolo dell’uomo che risorge dal suo fallimento, perché mi interessa l’uomo nel momento della sua caduta, il momento in cui lo spirito risorge appunto, e risplende in risorse inaudite. “L’altro addio” racconta la storia di un giovane uomo dell’Est, finito in Italia, malato di alcol e di nostalgia. In Italia diventa un barbone, fugge dal padre, dirigente di partito, da una Polonia misera, disorientata,  svuotata dalla democrazia appena sopraggiunta, dopo la caduta del muro. È giovane, bello, coraggioso, ma è già compromesso dall’alcol e dalla violenza, appartiene alla cosiddetta Generacja nigdzie, generazione del nulla, nata sulle ceneri del muro. Lascia il suo Paese, insieme a una torba di uomini e donne che sognavano l’Europa (e, malgrado tutto, la Polonia non lo era ancora), e in Europa diventano ex qualcosa, ex impiegati, ex operai, ex padri, ex madri, diventano un numero, cadaveri nelle nostri stazioni, creature deformi nei nostri borghesissimi parchi. È anche la storia di un amore. Nello stesso tempo racconta tutte le solitudini, in luoghi innominabili, dove la decenza non si sognerebbe mai di entrare, retrovie di stazioni, dormitori, giardini pubblici, recinti per i dissoluti e gli abietti. Io li considero degli eroi, i miei eroi, il loro dolore epico è diventata la mia poetica. Non smetto di raccontarli, dal mio romanzo d’esordio “Sangue di cane” (Laurana, 2010) a “L’altro addio” (Marsilio).  Questo sguardo che devia continuamente me lo trascino dietro da quel lontano dicembre del 1982, quando a otto anni, in una libreria di Terni, ho aperto le pagine del diario di Christiane Felscherinow.

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