La Terra dei Kalinga di Antonio Raciti

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Mettendo una parola dietro l’altra, componendo temi al liceo, scoprii che le parole mi emozionavano. Quella vibrazione interiore si amplificava o attenuava al variare della struttura o al mutare dei termini utilizzati. Sostituendo un sostantivo o un aggettivo la frase faceva fluttuare il mio umore. Come quando si agisce su una manopola (della lampada, dello stereo o di un rubinetto) si riesce a variare l’intensità della luce, il volume di un voce, il colore di un suono, renderlo più chiaro o più scuro. Sentivo fremere il mio cuore e riuscivo a coinvolgere l’amata professoressa di lettere. Le mie emozioni sussultavano e a volte la coinvolgevo. Il suo partecipare mi emozionava ancora di più. Insomma come delle biglie le parole e le emozioni che ne scaturivano rimbalzavano sulla professoressa e sui miei compagni per poi ritornarmi indietro incrementando l’emozione iniziale.
Quel gioco, per me, non era nuovo. Avevo già percepito quei sussulti dell’anima fotografando. La stessa scena, con gli identici oggetti produceva risultati completamente diversi. La composizione dell’immagine, la direzione della luce, la spontaneità creavano risultati diversi. Scrivere la Terra dei Kalinga ha liberato emozioni, i ricordi erano vivi come se appena trascorsi. Sempre più presente è stata l’immagine dei miei figli ormai lontani nello spazio e nel tempo. Anche l’esperienza, in mezzo a quelle tribù, rinnovava il contatto vissuto con quella gente. Ed ecco che sorrisi, fremiti, incantesimi riapparivano e diventavano concreti durante la costruzione delle frasi. Nel descrivere i padri che ho incontrato ho cercato i termini che più li rappresentavano. Più la parola era adeguata più mi rispecchiavo in quel genitore, più sognavo i miei ragazzi. Il continuo paragone con l’occidente infiammava la scrittura che sembrava diventare una sequenza di fotogrammi sempre più tridimensionali. L’amore per quella professoressa di liceo non era altro che l’amore per ciò che il linguaggio riesce a trasmettere alle orecchie del cuore.

Antonio Raciti

Sinossi

Un viaggio in India a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno, un racconto affascinante e coinvolgente che porta il lettore alla scoperta delle mille contraddizioni di una terra generosa e difficile.
Antonio e Carmen, appassionati viaggiatori italiani, si lasciano incantare dai racconti della loro guida, Mr Mishra, che li porta lontano dai flussi turistici, alla scoperta intima di templi, strade, monumenti, storie, tribù.
Un viaggio verso la bellezza intima di un luogo, verso una tradizione secolare, ma anche e soprattutto un incontro profondo con la gente, con i loro occhi, con le loro mani, con i loro sorrisi, con la loro accoglienza.
E la macchina fotografica non ritrae semplicemente un sari variopinto o una statua di pietra, coglie l’attimo di uno sguardo, accomuna linguaggi lontani, si fa bagaglio leggero.
Nel corso del viaggio, Antonio e Carmen incontrano Calcutta, i templi di Bhubaneswar, il Tempio del Sole di Konark. Insieme restano annichiliti di fronte a una donna che sembra seppellire il figlioletto nella sabbia. Trasognati viaggiano nei luoghi in cui l’estasi di Krishna diede inizio alla leggenda del dio dagli occhi grandi. I due viaggiatori s’imbattono in un funerale a Puri, nei bambini che chiedono di essere fotografati per guardare poi entusiasti la propria immagine sul display. Conoscono curiosi i villaggi Kutia Kondh e Kuvi Kondh, la tribù Bonda, Bara e Olari, gli intoccabili Shudra, appartenenti alla casta bassa. Sperimentano l’alcolismo diffuso, la collina sacra Niyamgiri, l’esplosione di colori del Kunduly Market…
Non si tratta però solo di un viaggio proiettato verso la scoperta, l’incontro, l’esterno: nel corso della narrazione compaiono flash back che portano ad Antonio folate di ricordi dell’infanzia dei suoi figli, a cui è legato da un rapporto difficile, e della propria vita.

Uno stralcio dal libro

I gruppi Hare Krishna, inizialmente assemblati in aree delimitate nel centro della piazza, si avviarono in ordine verso la fila d’attesa per entrare nel Jagannath Mandir. L’arancione degli abiti si riversava in un mare multicolore. Mi sembrava di esser tornato all’università ‒ laboratorio di chimica quantitativa ‒ dove, per la determinazione della quantità di una sostanza, si facevano le titolazioni. In quei locali asettici, gelidi come quelli della libreria, guardavo rapito il liquido colorato di una provetta disperdersi in un becher di soluzione incolore. Sarei rimasto volentieri in quel luogo di cultura vera ma così scarso di strumenti del sapere, se non fosse stato che l’aria era pregna di un elemento che sembrava riempisse la mia mente. Allungai il collo e dilatando le narici sentii il diffondersi di odore antico, di un altro tempo. Era una via di mezzo tra il profumo dei libri ingialliti e la ricercatezza di un salotto borghese. Senza indugiare, Manas ci indirizzò verso un’altra scala e, dopo essersi fatto consegnare le chiavi dal custode, ci portò sulla terrazza che si affacciava proprio di fronte al tempio. Il sole stava tramontando dietro il gigantesco monumento. Le torri del Jagannath Mandir si stagliavano nel cielo grigio venato di rosa, proprio davanti a noi. La più alta era la più lontana ed era rivestita da una pietra scura, mentre le altre apparivano più vicine e ricoperte da un materiale bianco sul quale risaltavano le pellicce di un gruppo di scimmie. Gli atletici quadrumani attiravano la nostra attenzione con vistose capriole eseguite pericolosamente sui tetti eccessivamente spioventi delle torri. Guardando attraverso il teleobiettivo distinguevamo chiaramente la porta d’ingresso, ai cui lati due sculture di esseri mostruosi proteggevano il santuario
da oscuri mali. Nella parte periferica, alla nostra sinistra, un numero elevato di camini indicava la collocazione delle cucine. Quei fornelli quotidianamente sfornavano, a detta del Prof, seimila pasti per i pellegrini in visita al tempio. L’impressionante numero di pietanze calde, diceva Manas, era il termometro dell’importanza del santuario. Ci raccontò, con ampi gesti delle mani, il rito che avveniva a Puri nella ricorrenza del giorno dell’apparizione delle tre divinità (Snana Yatra). Le statue, portate col Ratha-Yatra33 nella parte prospiciente la piazza, vengono ricoperte d’acqua, di latte, yogurt e altri cibi freschi. Tutto ciò affinché le divinità possano godere dei beni terreni. La tradizione vuole che Krishna non vada guardato ma servito. Il rito del bagno si svolge per un lungo periodo di tempo (anche diversi giorni), finché la festa giunge a una sosta forzata. La tregua è dovuta al fatto che, dicono, le statue bagnate si ammalano. A causa della loro infermità rimangono in convalescenza per quindici giorni nel luogo in cui sono giunte. A guarigione avvenuta inizia il Ratha-Yatra di ritorno, per riportare le statue all’interno del deul.

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terra-kirlingaAntonio Raciti
è nato a Zafferana Etnea (CT) nel 1958, ha frequentato il Liceo Scientifico ad Acireale e successivamente a Firenze ha conseguito la laurea in Farmacia. Esercita la professione di farmacista nel proprio paese d’origine. Di temperamento appassionato e poliedrico, si è avvicinato, negli anni di formazione, alla militanza politica, alla studio della musica ed alla pratica teatrale. In tutti questi ambiti ha trasfuso il suo entusiasmo e la sua curiosità intellettuale. Nel 2004 ha conseguito il “compimento inferiore” in tromba. Si è esibito in orchestre di fiati e dal 2003 al 2006 ha dato vita ad un quintetto da camera che ha ricevuto lusinghieri apprezzamenti. Fin dal mitico ’68 con la storica Bencini si è appassionato alla fotografia, seguendone l’evoluzione tecnologica fino all’avvento del digitale. In particolare si è specializzato nella fotografia naturalistica, di viaggio e dei ritratti dal vero. Ha partecipato a diverse mostre collettive ed ha realizzato delle mostre personali: a Zafferana Etnea, a Catania, a Mistretta, a Palermo. Negli ultimi anni ha trasformato la sua passione per i viaggi, per la fotografia e per la scrittura in attività di conoscenza antropologica e in crescita interiore. Ne sono scaturiti tre volumi (Deccan, SBC edizioni, 2010; Dharma, Robin Edizioni, 2012 e La terra dei Kalinga, 2014) che non sono asettici reportage di viaggio, ma itinerari spirituali e occasioni di meditazioni sull’esistenza. Conosce l’Etna ed il suo territorio e ne apprezza le storie e i cibi tipici.

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