Gli anni ‘60/’80’ sono anni in cui si sono sviluppati gli studi sul comportamento d’aiuto, di altruismo prosociale in genere. Sotto il termine di ‘comportamento prosociale’ si nascondono molte sfumature di un’unica modalità dell’agire umano, che ha come fine quello di proteggere, favorire o mantenere il benessere di un determinato oggetto sociale. In questo campo il termine ‘prosociale’ è inteso come capacità cognitiva nei confronti dell’altro, come tendenza, cioè a percepire i bisogni altrui, ad assumerne le prospettive, ad entrare in rapporto empatico e a reagire emotivamente in congruenza con la situazione. In questa direzione è andata la ricerca, che tendeva a individuare i vari aspetti delle influenze reciproche nei comportamenti di aiuto in un’ottica internazionale che comprende i due soggetti della relazione: chi dà e chi riceve o richiede aiuto. Tuttavia, in questi ultimi anni, gli studiosi delle discipline sociali hanno volto la loro attenzione sulla interazione della seconda categoria, cioè hanno individuato nuclei di interesse molto particolari nei processi cognitivi e motivazionali delle persone che chiedono o ricevono l’aiuto. A partire dagli anni ’80 si assiste a un accrescimento degli studi volti ad approfondire i processi di richiesta di aiuto sia nell’ambito delle teorie dello scambio e della reciprocità, sia in quello della responsabilità sociale. Il tema del comportamento di aiuto si presenta ricco di gradazioni legate alla complessità delle motivazioni che possono indurre le persone ad arrecare o meno aiuto agli altri o, anche, ribaltando la questione dal punto di vista del soggetto che riceve l’aiuto o che dovrebbe richiederlo, alle motivazioni che inducono a chiedere o a non chiedere l’aiuto, ad accettare o rifiutare quello offerto. Anche se aiutare il prossimo in difficoltà rappresenta un valore moralmente approvato, tuttavia, possono sorgere nell’ipotetico aiutante, conflitti e timori circa un eventuale pericoloso coinvolgimento personale o circa il rispetto della privacy e dell’altrui autostima, e questi comportamenti possono, di conseguenza, creare risposte ostili ed essere oggetto di condanna. Il comportamento prosociale che Staub definisce ‘comportamento sociale positivo’, teso al beneficio degli altri, può essere classificato lungo varie dimensioni: il grado di beneficio che riesce a produrre in favore dell’altro; il grado e il tipo di sacrifici richiesti a colui che agisce; l’intenzione che si suppone alla base dell’azione. La motivazione altruista può essere prodotta dal desiderio di fare il proprio dovere, di assolvere a un obbligo o può essere sostenuto dal desiderio di ottenere benefici di varia natura per se stessi. Reykowski distingue quattro tipi di comportamento: 1) altruistico che prevede un sacrificio personale; 2) di aiuto che implica solo i costi naturali dell’azione (tempo, sforzo necessario); 3) di cooperazione che si propone scopi personali e sociali; 4) di considerazione, cioè, un comportamento che, evitando di danneggiare la società e i suoi membri, cura i propri interessi. La letteratura scientifica indica come determinanti del comportamento prosociale tre classi di motivi: 1) l’individuo può essere motivato dal desiderio di avvantaggiare se stesso; 2) la motivazione per tale comportamento può essere costituita dai valori, credenze e norme interiorizzate o sviluppate nel corso dell’esperienza; 3) l’empatia. Hoffman, autore di numerosi studi sull’altruismo, definisce l’empatia come un’attività emotiva, una risposta affettiva appropriata alla situazione di qualcun altro. Batson e Coke concordano con questa definizione: le persone, dunque, entrano in risonanza con le emozioni degli altri. Questa attitudine è appresa o innata? Alcuni studi recenti, ricavati da osservazioni di bambini di varie età, nel loro ambiente normale di vita, dimostrano che l’attitudine a entrare in relazione con gli altri, è precoce, ciò, tuttavia, non significa che bambini e adulti rispondano sempre in modo empatico e che alcuni non provino piacere nel vedere le sofferenze altrui. Anna Oliviero Ferraris, in un suo articolo, sostiene che è indiscutibile che questa probabile tendenza ‘fusionale’ di origine biologica, in una specie poco istintiva come la nostra, può essere rinforzata, ma anche ostacolata nella sua espressione da fattori di apprendimento, di cultura, dal calcolo costi/benefici, e, perfino, da giudizi morali, e, infine, anche dalle differenze individuali (si pensi alla chiusura dei bambini autistici). Si può decidere, infatti, di non aiutare se si è convinti che la persona in questione ‘meriti di espiare’ oppure se si pensa che debba imparare a ‘cavarsela’. Un elemento che influenza il livello di empatia è la ‘somiglianza’ della persona in difficoltà con l’osservatore; la somiglianza, infatti, ha l’effetto di produrre simpatia o attrazione. È stato dimostrato che se l’osservatore pensa che colui che subisce una punizione o un’ingiustizia ha una personalità simile alla sua, è molto più empatico e più altruista, perché è portato a ricompensarlo e ad aiutarlo. Vedere un’espressione di dolore sul viso di una persona non produce, in sé, un livello alto di attivazione, ma se si viene a conoscenza della morte di una persona cara, l’attivazione è elevata. Esiste un terzo fattore che potrebbe essere definito come ‘disposizione cognitiva’, cioè il punto di vista che una persona adotta quando pensa a colui che ha bisogno di aiuto. Infatti, se si immagina al posto dell’altro, l’empatia aumenta, c’è quindi una maggiore disposizione a dare aiuto. Ultimo, ma non meno importante, è il fattore dell’apprendimento. Gli studi di Aronfreed ed Ekstein dimostrano che, sia i bambini, che gli adulti, possono imparare ad assumere il punto di vista dell’altro. Tuttavia esistono molti fattori che riducono la disponibilità a dare aiuto. Uno di questi, soggettivo, è l’‘umore depresso’, il sentirsi in una posizione di svantaggio e privi delle risorse adeguate. Un altro è il pensare che siano gli altri a dover intervenire: quest’ultimo è chiamato ‘negazione di responsabilità’. C’è poi il fenomeno della diffusione della responsabilità che si verifica quando sono presenti altre persone: ognuno si aspetta l’intervento dell’altro. Darley e Latanè sono stati i primi a studiare questo fenomeno a seguito di un episodio accaduto a New York nel 1964 che fece molto scalpore. Una donna, Kitty Genovese, fu aggredita, di sera, vicino casa sua. Le sue urla raggiunsero almeno trentotto persone che si dimostrarono testimoni passivi e, dopo essere stati spettatori per circa mezz’ora, non chiamarono la polizia, né accorsero in suo aiuto. Gli studiosi conclusero che il comportamento dei vicini dipendeva da tre motivi principali: 1) ‘dispersione della responsabilità’: più testimoni ci sono, meno il singolo individuo si sente responsabile. La ‘dispersione’ aumenta se l’intervento comporta dei rischi e se la persona in difficoltà è straniera o sconosciuta (cioè ‘diversa’); 2) in presenza di testimoni aumenta il timore di aver mal interpretato la situazione; 3) la definizione collettiva della situazione può incoraggiare l’inattività: se una persona vede che gli altri, come lui, guardano senza intervenire, può concludere che la cosa non è grave, né l’aiuto è necessario. Il rapporto tra empatia e altruismo riprende la teoria dello scambio; infatti, secondo i suoi massimi rappresentanti (Thibant, Kelley, Blau) l’individuo cerca di massimizzare i propri profitti e tende a reagire all’altro, nella situazione sociale, in maniera da poter ricavare il massimo possibile dall’interazione. Berkowitz differisce nettamente dalla posizione di Blau e da quella degli altri studiosi teorici dello scambio, contrapponendo agli ‘uomini santi’ alcuni individui portati ad aiutare l’altro senza tener conto di sé. Le posizioni teoriche della psicoanalisi, dello sviluppo cognitivo e quelle dell’apprendimento sono le posizioni più significative nello studio dello sviluppo morale. Mentre la psicoanalisi usa costrutti emozionali e motivazionali per definire lo sviluppo della personalità e sottolinea il ruolo del super-io (costrutto interno) per comprendere la genesi del comportamento morale, le teorie dello sviluppo cognitivo fanno ricorso alle norme e all’acquisizione di norme di principio universali. Le teorie dell’apprendimento, invece, mettono in rilievo l’importanza dei fattori esterni o situazionali per l’attuazione del comportamento morale. Queste teorie si sono interessate, soprattutto, di come gli individui si comportano in situazioni particolari, di quanto tale comportamento possa essere generalizzato ad altre situazioni e di quanto questo stesso comportamento debba considerarsi appreso. Piaget e Kohlberg, anche se con numerose differenze concettuali e di metodo, hanno reso i più famosi contributi nel campo dello sviluppo morale. Entrambi hanno studiato in che modo l’individuo struttura l’ordine morale esterno e come queste strutture variano nel processo evolutivo. Gli studiosi ritengono che lo sviluppo morale si attui attraverso una serie di stadi determinati e distinti qualitativamente, il cui fine ultimo è rappresentato da un senso della giustizia che ha un carattere universale e che si riferisce alla reciprocità tra individui. Ciascuno studio rappresenta un tipo particolare di strategia, autosufficiente e omogeneo, capace di rispondere a quesiti di carattere morale. Con l’applicazione del metodo clinico e del metodo sperimentale, la teoria piagettiana conduce un’analisi del rapporto tra l’intenzionalità dell’azione e le sue conseguenze. Tra lo stadio del realismo morale e quello dell’autonomia morale il concetto che il bambino possiede della regola va sempre più modificandosi; contemporaneamente riesce a valutare la gravità dell’azione e muta di conseguenza la nozione di responsabilità oggettiva. In tutta l’esperienza di Piaget si possono distinguere due tipi opposti di rapporti sociali: rapporti di costrizione e rapporti di cooperazione. I primi sono caratterizzati dalla imposizione dall’esterno di divieti e di regole, i secondi sono capaci di far nascere, all’interno dell’individuo, la coscienza di norme ideali e sono espressione di un equilibrio basato sul rispetto reciproco e sulla uguaglianza. Kohlberg, pur accettando le posizioni di Piaget, secondo cui non è possibile escludere la possibilità di uno stadio di sviluppo successivo a quello delle operazioni formali, propone l’esistenza di nuovi stadi che abbiano una componente cognitiva e strutturale. Negli anni ’70 la scuola di Walster diffuse la teoria dell’equità nella sua formulazione più ampia suscitando l’interesse dei teorici della psicologia sociale e generale. Questa teoria si basa sulla proposizione: l’uomo è ‘egoista’ e tende a massimizzare il suo profitto. Quanto più il comportamento equo è vantaggioso, tanto più è semplice indurre i membri del gruppo a comportarsi equamente. Secondo la teoria dell’equità, quando una persona partecipa una relazione iniqua prova sofferenza. E più è iniqua la relazione maggiore è la sofferenza sperimentata e maggiore è lo sforzo per ristabilire l’equità. Le strategie a disposizione dell’individuo per ristabilire l’equità sono di tue tipi: materiali e psicologiche. Il primo tipo di strategia indica il tentativo di modificare adeguatamente il proprio e l’altrui guadagno; il secondo comporta la distorsione della realtà come ad esempio il deprezzamento della vittima e la minimizzazione della sua sofferenza. Per molti aspetti le relazioni sociali assomigliano a vere e proprie contrattazioni di mercato. Alcuni beni e servizi, infatti, vengono ceduti con la speranza di ottenere un tornaconto, un vantaggio personale. L’individuo, di conseguenza, negozia le proprie azioni con quelle degli altri mirando a conseguire il massimo piacere al minimo costo. Non sempre, però, le relazioni sono fondate sullo sfruttamento. Visto che gli individui sono tesi a ricercare forme di scambio capaci di favorire il piacere ed evitare quelle forme che massimizzano la sofferenza, si dà la preferenza a quelle relazioni che assicurano il massimo vantaggio e piacere reciproco.
Numerosi teorici di scienze sociali sostengono la tesi che l’equità sia uno dei fattori che contraddistinguono la giustizia. Essi sovrappongono al concetto di ‘equità’ quello di ‘eguaglianza’ nella distribuzione delle risorse. Oltre allo sfruttamento che nasce dall’ambiguità delle norme, esiste uno sfruttamento costituzionale all’intero sistema di scambio; esso tende a favorire alcuni individui e a sfavorirne altri. Molte situazioni di scambio coinvolgono problemi psicologici ed è per questo motivo che gli psicologi sociali si sono maggiormente interessati a un tipo particolare di scambio, denominato a ‘motivazione mista’, nel quale il desiderio di cooperare entra in conflitto con il desiderio di sfruttare. I temi della collaborazione e della competizione suscitano l’interesse di molti studiosi, perché temi cruciali delle relazioni interpersonali e comprensivi di una vasta gamma di fenomeni psicologici. L’attenzione alla competizione, piuttosto che alla collaborazione, è sostenuta dall’esigenza di conoscere i comportamenti aggressivi e le componenti ostili dell’interazione. La competizione sembra, infatti, capace di incanalare tali comportamenti in forme di comportamento organizzato e produttivo le cui implicazioni pratiche sono molteplici. Numerose ricerche, sin dagli anni ‘60/’70, hanno preso in esame alcune variabili fondamentali del comportamento di scelta competitivo: la stima di sé, l’autovalutazione sperimentale indotta, la valutazione dell’altro, la valutazione di sé nella percezione dell’altro e la ricompensa, giustamente o ingiustamente, attribuita. Nelle teorie dei giochi di Luce e Raiffa, 1057, le dinamiche motivazionali, che sottendono il processo decisionale dei giocatori, sono riferibili alle teorie dell’utilità, il cui postulato fondamentale è quello della massimizzazione del profitto. La particolare elaborazione di alcuni giochi (‘Dilemma del prigioniero’) e la manipolazione delle condizioni sperimentali, mostravano come non sempre il giocatore riuscisse a mettere in atto un comportamento inteso unicamente alla massimizzazione del proprio guadagno. Al contrario, questi tendeva spesso a operare scelte di una ricompensa giudicata giusta, il che non corrispondeva alla ricompensa massima. La competizione e la collaborazione appaiono, quindi, come aspetti complementari del comportamento nel rapporto interpersonale. È da sottolineare che esiste un complesso rapporto tra autovalutazione e competizione; esso comporterà tre elementi: 1) il dover raggiungere una ricompensa aumenta nel soggetto lo status e l’autostima; 2) l’ammontare della competitività che un soggetto attua in una situazione è influenzato anche dal ‘come’ egli valuta il proprio eventuale successo o fallimento; 3) se un soggetto ha un giudizio valido su se stesso il suo comportamento dovrà convalidarlo e non contraddirlo. Gli studiosi delle situazioni internazionali sostengono che molte nazioni adottano politiche di sfruttamento reciproco e tutto questo non fa altro che scaturire veri e propri preparativi all’aggressione. Perché mai dobbiamo aiutare gli altri e non badare solo a noi stessi? Gli studi confermano che l’altruista si sente bene non solo emotivamente, ma anche fisicamente. La maggiore tranquillità e l’aumento della valorizzazione di sé, dopo aver fatto una buona azione, vengono spiegate dai cardiologi: si regolarizza il metabolismo, si abbassa la pressione arteriosa e si regolarizza il ritmo cardiaco. L’altruismo funziona così, proprio come lo Joga, gli esercizi spirituali e la meditazione. Inoltre la calma indotta dall’attività al servizio del prossimo sembra legata a una riduzione dello stress emotivo. Concordo con Staub che sostiene che abbiamo tutti il potenziale per diventare persone altruiste e sollecite, oppure violente e aggressive. Nessuno sarà altruista se le sue esperienze gli insegnano a curarsi solo di se stesso; ma il legame umano è intrinsecamente gratificante se solo gli permettiamo di svilupparsi. Nel 1962 Osgood propose un modello per la riduzione delle tensioni internazionali, la cosiddetta ‘riduzione graduale della tensione reciproca’ (G.R.I.T.) Mentre aumentava la crisi di Cuba e il 1961 segnava la costruzione del ‘muro di Berlino’, Osgood pubblicò ‘An Alternative to wor and Surrender’ All’autore premeva rovesciare la spirale del riarmo in una situazione di ‘disarmo’, in cui una calcolata riduzione degli armamenti da una parte, dovevano necessariamente comportare un passo uguale o maggiore della controparte. Osgood, da più di un quarto di secolo, ha dato l’esempio di come anche la psicologia sperimentale e la psicologia sociale possano contribuire a migliorare o a risolvere problematiche internazionali elaborando concetti comportamentali che potrebbero e dovrebbero essere attuati anche in politica. I risultati della ricerca sperimentale hanno dimostrato che la strategia G.R.I.T, la ‘politica dell’esempio reciproco’, può funzionare.
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Alcuni riferimenti bibliografici
Gergen, Gergen, Psicologia sociale, Il Mulino
Oneroso Di Lisa , Giustizia, norme e autoregolazione in psicologia sociale, Liguori Editore
Villone Betocchi, Il contributo della psicologia in situazioni di emergenza, Palladio
Asprea Betocchi, Teoria dell’equità e sviluppo morale dall’infanzia all’età adulta, Edisud Salerno
Asprea Betocchi, Il comportamento sociale positivo, Franco Angeli
Anna Oliviero Ferraris, Dall’empatia all’altruismo (Rivista Psicologia contemporanea, Giunti)
Asprea, Processi conoscitivi e variabile culturale nel comportamento competitivo e collaborativo, La Buona stampa.