G. tra i palazzi

La prima causa è l’accusa o la cosa
che sembra disegnarsi nelle linee
spaventose e dritte dei palazzi.
Affastellati in verticale, giusti
nella prospettiva di una fine, guasti
nella dimensione di un abitare diverso,
di un altro utilizzo. La striscia a specchi
in fondo mi avvicina alla causa
che brilla inutile in lontananza
come ogni attrazione.

Notte verde in alfabeto fosco

Notte verde in alfabeto fosco
o l’erudito nel parco,
quando la luce si fissa sulle curve
e dilava dalle spalle un sole diurno.
Aggrappati alla sua luce,
mentre un rumore qualunque
imprime un ritmo all’autunno,
ecco sopraggiungere la storia,
quella dei fili e delle linee,
di cerchi e spirali,
di sentieri che slargano
fessure, crepe.
E il cuore della notte,
col suo fiato ammuffito,
finge di ululare tra i cavi fibrosi.

Landscape I

Inaspettatamente vidi un albero
che si stagliava, ecc.
La sua corolla nella stanza
quando sei qui e il battito
dell’ombra in una cornice
raccolta e nera.
Quando sei qui – sogna: «mi lasci
qui, le farò un bel regalo» –
bambina.
E i suoi occhi notarono la simpatia
tra la vista e lo scorcio
nella distanza soffice, nel cunicolo
di luce che lo sguardo riusciva
ad abbracciare. Poi,
fu un accostamento di filtri
per schermare l’imperfezione dell’albero.

Landascape II

Davanti alle pietre di S. – che
non vedo – non vedo che
minimi crolli, come la polvere
di una sete magniloquente,
i fasti delle grandi dinastie.
Vedo di S., Babilonia e un giorno
la bomba caduta in tanti luoghi,
il pulviscolo sottile che si alza
e irrigidisce l’atmosfera
e rende il mio respiro alla sua resa,
necessario alla sua lingua
che s’impossessa del quadro
e vedo S. alle sue pietre.

H. B. – uno studio: Introduzione

C’è sempre chi dirige la visione
anche se si nasconde nel muro.
Poi al centro si verifica
che il doppio delle pieghe
si ripieghi su se stesso ed esploda
qualcosa. Il ritorno costante
al sacrificio – sempre più originario –
è una beffa del doppio, mentre attorno
proliferano figure. I mondi del mondo
risucchiato nel marchingegno fino
a un cunicolo sfasato
che attira il suo farsi.

H. B. – uno studio: Fine del primo

Prova sia che a materializzarsi
è un corpo centrale
spiccante come una palla o una esse
nella mano brillante, nel velo
candido della tunica. Non da lì,
ma nel resto, una macchina
che è anche una città che è anche occhi
o un costrutto che incombe
o un presagio o lo stesso candore
indossato, nero. Fino a sentirsi assorbito
dal paesaggio verde mentre i lupi
divorano i viandanti.

H. B. – uno studio: Va via il terzo

E poi un altro piscia dietro la casa
perché la vita si vorrebbe in fuga
ma resta armata d’esperienza
e pugnali. Per questo la figura
segue l’immagine – fare figura –
perché significa esporsi al mondo
conoscerne il meccanismo
per fuggire di stazione in stazione –
cioè fermarsi e guardare – senza
tornare. Eppure lei sarebbe uscita
ma la brocca restò nella mano
mentre un’altra mano la bloccava.
Ci resta un ultimo sguardo –
chi dalla finestra chi partendo –
al buio del dopo, alla possibilità
più o meno remota del desiderio
o della salvezza.

Landscape III

Attorno ronzano i bambini,
attorno girano e sciamano oggetti.
Piscione desiderante
che non sospetti il paesaggio
invisibile e senza foto
cadi nelle linee di fuga
nell’ombra dietro le linee
nella prospettiva che finge
la tua presenza senza prostata.
Quindi ci raggiunsero altre leggende
nel clima freddo e negli schizzi casuali –
ma era già un ragazzo – un rospo
che componeva con trasporto
comodamente appoggiato
al suo trasporto.

H. B. – uno studio: È quindi il giardino?

Ai due angoli raggiungono le schiere
e un dito indica e indica e indica –
cosa fosse la strada triplicata, le fette
di corridoi e i cerchi paralleli
dei tre nell’unico mondo
del pannello centrale. Eppure la memoria
ritorna alle ante chiuse, alla bolla equorea,
alla gelida sfera, alla divisione grigia
e alla faccia buffa in alto,
al microbo che crea un mondo
piccolo e pronto a scompaginarsi.
Si squinterna nel brillio appariscente
dell’interno, la polpa sviscerata,
il nucleo striato di colori palpitanti…
eppure il tono freddo, l’antartide
dei primi passi è tutto un’euforia
erotica, un’orgia di posizioni
in cui fermenta il mondo.
La melma gelida indicata,
indicata, indicata
dal furbetto opposto alla figura buffa,
il creatore doppio,
l’artefice di un riflesso che guarda
per strati e rompe
la prospettiva prima di sfumare
risucchiato nel punto di fuga.

 

Postilla:
Già da tempo occorreva dirlo: «la finzione è l’ultima speranza» (F. Fortini), inutile fingere di non saperlo.
Da giorni studio quei pannelli sullo schermo del computer, eppure non basta (ho comprato un libro che deve ancora arrivare). Alcuni dicono di paesaggi allegorici e simbologie ricostruibili, io penso che tutto questo velare e svelare sia secondario. Molto meglio reinterpretare, cogliere il timore sotteso alla nuova scoperta, anche se parlo di un mondo circoscritto, questo artefice poteva spalancare l’immagine. Artefice, un fingitore. In questa speranza di finzione si allarga un mondo, con buona pace del sistema che tenta di rilevare con chiarezza i dati d’esperienza. A crearsi è un’altra macchina che declina questa stessa chiarezza, ne fa un velo superficiale, ma la forma decade, appunto, e dalle chele scintillanti si muove oscillando una nuova forza che provoca una spaccatura. Non si tratta di un senso superficiale, di un equilibrio, dell’epifania dell’apparenza (o, peggio, di un’apparizione), ma di una ulteriore connessione tra elementi d’immaginazione. Dell’artefice al margine dell’opera. Ahimè, chi crea non è semplicemente immerso; si ritaglia uno spazio che è anche un privilegio, una topologia fantasmatica, una proiezione. Racconta o suggerisce il suo modo di agire, indica e indica e indica perché riflette e fa riflettere sull’artificio.

Landscapes IV

Sikka è Vertigo.
Ripetizione di un meccanismo
in corso da sempre.
L’eterno ritorno è un gioco figo
come mollare una puzzetta
mentre sei costretto a dormire
nella merda d’uomo.
La merda dell’uomo è nobile,
poteva andare peggio, come stare
in un vortice al buio con attorno
un blob di fantasmi in carne e ossa
pronti a mangiarti e dopo violentarti.
Tutto questo capogiro occorre immaginarlo
per sempre, da non avere neanche il tempo
di pensare che le tue lacrime sono il risultato
del risucchio gravitazionale
quando l’alchimia della mente
sgorga dal rubinetto dell’ipofisi
e per ridurre lo stress
occorrerebbe pensare alla vita
come un meccanismo di riempimento oceanico.

P. B. incontra A. H. – Il trionfo della morte

Come se la tenerezza del desiderio
potesse svincolarsi dal rapporto con la morte.
In questo saggio esporremo la tesi
del quadro senza cornice, meglio
dell’indifferenza tra quadro e cornice –
io sto qui, sono Gianluca e osservo.
Dicevamo: nel nome del padre il desiderio
della madre – qui parte la grossa falce
al centro e l’anima/animo dirupa –
lo sguardo si bea nascosto e s’inquieta
quando chi guarda è protagonista;
l’isteria è nel suo cubo psicologico.
Ma tornando al quadro, il piano rappresentativo
inscena la danza del coincidente:
lo scheletro è già nella carne,
potresti negarlo?
e allora rendiamolo evidente
manipolando il corpo e ribaltandolo
sul piano di una psiche anulare (direbbe un amico).
Marsia esposto a decantare ci guarda
fisso dal culo di Lucifero
dal cuore di una pulsione decorticata
dalla fine imbalsamata per monitorare
perennemente la propria mortificazione –
salvezza per la propria vanità.
Io muoio, trionfante finalmente
assente al mio richiamo,
depotenziato nel flusso e nella danza,
nell’orma titillante, negli angoli remoti.

 

 

ph Dino Ignani

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