Eldi Veizaj, Valentina M. Pastelli a cera su carta, 70x50 cm, 2014. bERNINI
Eldi Veizaj, Valentina M. (2014)

Il bambino salì le scale come arrampicandosi su di una nuvola. La grande terrazza si apriva un po’ più su dei tetti delle altre case del paese, e senza invadere troppo lo spazio aereo dell’aria più alta e fresca, si appoggiava sul limite sopraelevato che incontrava la linea delle colline laggiù in fondo. Sorpreso e festante come sempre, il fanciullo si sporse con un brivido a guardare prima in basso, sulla strada maestra del borgo, dove le donne in semplici abiti quotidiani tenevano penzoloni la busta della spesa, tornando verso casa. Era così che arrivava la primavera ogni anno, quando poteva fare quella corsa sugli scalini a due a due, rimbalzando sulle minuscole gambe che parevano archi tesi, per poter aprire davanti a sé tutto il chiaro di luce che quel cielo collinare rinnovava quasi inaspettatamente. Ci sono piccole vite che smascherano il mondo. E quando a una di quelle è affidata una possibilità, non mancano di coglierla. Sarebbe un errore pensare solo all’esperienza e agli anni, perché i bambini non conoscono nessun tempo se non quello immediato di ciò che percorrono: sono i segni della natura che scrivono la propria legge. Affidata al pensiero tenacemente riflessivo l’esistenza vacilla, incespica. Ma date a un bambino l’occasione di parlare con un gioco, senza dire nulla, e vi mostrerà ogni cosa che si nasconde nell’atomo così come nell’infinito. Quando sua nonna stendeva la biancheria sul grande terrazzo arieggiato, il bambino si infilava tra i lembi delle bianche lenzuola, come in una galleria candida e luminosa, sbucando improvviso di nuovo al sole, per poi intrufolarsi ancora in un’altra stoffa ricamata. Era così che giocava ai colori. Poi, quasi stordito e con la testa inebriata dal caleidoscopio delle tinte, si appoggiava al parapetto e fissava un punto: un albicocco, un trattore che scendeva il filare della vigna, la casetta incrinata dalla frana abbarbicata su una costola piana della collina. Giocava a guardare il mondo, senza conoscerlo a parole. Eppure tutto si ricomponeva nel suo solitario divertimento degli occhi, immensa gioia di ogni cosa che c’è, che esiste se viene osservata, perpetua procreazione e rinascita del tutto. Ora la terrazza era libera, solo i fili tesi e un po’ allentati che aspettavano il prossimo bucato della nonna, e un’aria non ancora intiepidita da un sole più inclinato a protendere calore. La primavera sembrava un bimbo appena nato che ancora non sa tenere gli occhi aperti per troppo tempo. Viene alla vita da un’altra vita più accogliente, sospinto da una madre che lo dona al mondo, miracolo e insieme sofferenza di entrambe le parti: da lì nasce quello che chiamiamo amore. E si ripeteva ancora, seppure ogni anno più oscuro, il gioco dell’altro bambino, il nostro, che abbiamo seguito su per le scale e sbirciato muoversi nel suo gioco. Seguiamolo ancora. Oltre le vigne e il declivio della collina davanti poteva soltanto buttare la fantasia, ma senza preoccuparsene troppo. Suo padre era da qualche parte là in mezzo, a muoversi tra le viti e sapeva esattamente cosa fare per portare il frutto verso l’autunno. Lo sapeva, il nostro bambino. Ma adesso cercava come qualcosa che scendesse precisamente da una fila di case che salivano ai piedi dell’ultima strada del paese, quella che portava all’asilo. Stava lì in attesa e adesso non sembrava più interessato al gioco della corsa di prima. Si coglieva nella sua posa quasi immobile il senso dell’appuntamento. Oh, come ci si illude di far combaciare tutto con gli orologi! Poveri quelli che non hanno mai sentito quanto un incontro si ribella al dovere di stabilire una precisione convenzionale! Quanto sono più puntuali i sensi quando dobbiamo incrociare il desiderio! I sensi ridono di lancette e numeri, sanno che agli appuntamenti non si giunge con l’accordo dei minuti, bensì con il piacere del cuore. D’improvviso scese una donna da quell’erta, e faceva piccoli passi cauti nel venire verso la direzione del bambino. Teneva le braccia conserte e il capo basso, con la corta chioma scura dei capelli che la rendevano come il pistillo di un papavero. Il bimbo si appiattì dietro il muretto della terrazza, lasciando a filo solo i vispi occhi acuti. La donna arrivò sulla prima casa di quella fila ed entrò dalla porta. Ma il bambino stava ancora lì, aspettando un fatto conosciuto, si vedeva. Il nostro modo di atteggiare il volto sa esprimere spesso interi romanzi, così come i sogni, è l’enigma straordinario dell’essere umano, che racconta senza intento cosciente. Una finestra si aprì, appena al di sotto della terrazza, proprio al secondo piano della casa dove la donna era entrata, a una decina di metri in linea d’aria dal nostro piccolo protagonista. Lui non fiatava, aspettava e basta. Poi tutto l’azzurro che andava dalla punta del seno collinare fino giù alla pianura fu invaso da un gemito. Il bambino lì acquattato ebbe come un fremito ai polpacci, ma non si mosse. Gli occhi sembravano non esserci, lì sul filo raso delle piastrelle del parapetto, eppure puntavano precisi: è così che l’anima degli uomini guarda senza essere vista, ha bisogno di non dover apparire per far apparire ogni cosa. La donna venne verso la luce della finestra spalancata, teneva un neonato tra le braccia. Con una mossa quieta si abbassò le spalline del misero vestito che portava addosso, prima una e poi l’altra, tenendo il corpicino sempre sospeso e attaccato a sé. Infine il piccolo si attaccò a una mammella e cominciò a poppare interrompendo il gemito. Non guarderemo il nostro piccolo protagonista mentre fa scivolare gli occhi sotto il muretto non appena vista quella scena, non lo seguiremo mentre a gattoni si dirige verso le scale e per non farsi sentire scende gli scalini poggiando solo la punta delle scarpe; non lo vedremo sbucare nel cortile, voltato di spalle, piccola creatura umana che scantona oltre la vecchia stalla del cortile. No, non ha importanza. Eppure, sebbene tentiamo continuamente di trovare e ritrovare il filo di un racconto, questi ci sfugge sempre, e noi dietro a seguirlo, non tanto per paura di perderlo, piuttosto per il gusto di tracciare un percorso sconosciuto. Ma là su quella terrazza, e questo lo possiamo dire con certezza, quella luce rimasta come un’impronta chiara e riconoscibile, assomigliava tanto al sorriso che il nostro eroe aveva fatto fiorire sul suo volto quando l’appuntamento con la vita non aveva mancato.

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