di Antonio Di Mauro
La scrittura poetica di Milo De Angelis, lungo più di quarant’anni di “esercizio”, sembra naturalmente obbedire a una sorta di sconosciuta, enigmatica legge fisica, per effetto della quale si verifica come uno sbilanciamento dell’equilibrio tra visione della realtà e codificazione nei segni del codice linguistico, quindi nelle forme espressive del linguaggio. Uno spostamento, si direbbe, di quell’asse che costituisce il rapporto semantico tra percezione ed espressione, in senso obliquo, in direzione di una prospettiva di “oscurità” verso cui lo sguardo è attratto con forza irresistibile, come calamitato dall’autentica ragione dell’essere al mondo. La vita umana sembra infatti consistere in un rapporto conflittuale tra la contingenza che ci vincola, per l’essere creature frammentarie, in perdita d’assoluto, e l’agire misterioso, aleatorio, di un’entità illimitata che investe ogni segmento del quotidiano. Un’entità che però non risponde alla misteriosa presenza del “divino”, alle sue epifanie, bensì a una immensità “oscura”, segnata dal vuoto e dall’assenza di un senso riconoscibile. Da essa partono segnali perturbanti suscettibili di trasformarsi in allucinazioni.
Una dualità, questa, metaforica, allusiva, che percorre tutto il “corpus” poetico di De Angelis e che ritroviamo nel nuovo libro, Linea intera, linea spezzata, edito ne “Lo Specchio” di Mondadori. Pur inserendosi nel solco di quella specificità che ha caratterizzato i precedenti, nella rivisitazione di tematiche quali quella dell’addio, dell’ombra, del voltarsi indietro, del dialogo incessante con la morte iniziato nell’adolescenza («La serietà della morte ci ha accompagnato per tanti anni / con le voci interiori che all’improvviso esplodevano»), il libro presenta il raggiungimento di una loro piena compiutezza, che sta a significare una considerevole novità da identificare senz’altro con una certa raggiunta “linearità” del discorso lirico/narrativo. È come se, a partire probabilmente da una particolare condizione esistenziale, il poeta avvertisse già sin da alcuni precedenti libri, quali Biografia sommaria, Tema dell’addio per citarne solo alcuni, l’esigenza di una apertura espressiva che fa il verso più lungo, pacato, quasi a misura di un’attesa, rimanendo, tuttavia, tagliente, incisivo.
Si diceva della “dualità” che continua ad essere elemento essenziale di pensiero costruttivo, ossatura del farsi della poesia; in Linea intera, linea spezzata assume ora una sua configurazione più rappresentativa, si direbbe quasi geometrica, pur nella sua essenza simbolico-espressiva, già insita nel titolo stesso del libro. Il quale ci rimanda chiaramente al pensiero dell’I Ching, Libro dei Mutamenti taoista-confuciano, antichissimo classico della cultura cinese che forniva a scopo divinatorio il significato degli accostamenti di linee intere e linee spezzate in trigrammi e esagrammi generati casualmente. La linea intera per l’I Ching è quella della vita che giunge al suo naturale compimento, quella spezzata rappresenta la vita interrotta. Una dualità, questa, che si riproduce bene sul piano della scrittura nel ritmo combinatorio della misura dei versi, di cui le due linee diventano incarnazione, nell’essere elementi primari che delineano un’avvolgente pronuncia della vita intesa come divenire/susseguirsi di momenti vitali, sì, ma sospesi nel vuoto creato dall’attesa della fine, la morte. Ma la sospensione, oltre che da eventi, accadimenti fisiologici, naturali, può essere interrotta volontariamente. Ecco, allora, il prevalere della “linea spezzata”, nel senso più tragico: la decisione di uscire dalla vita come conseguenza della costante presenza della morte nella vita di ogni essere umano, del suo permeare ogni esperienza senza concedere tregua né riposo. A questo richiamo non ci si può sottrarre, in quanto la sua origine è nella zona d’ombra annidata in ciascuno di noi, dove, tuttavia, miracolosamente la poesia, come un sacro fuoco che fa luce nella sua oscurità, riesce a scoprirvi e a portare allo scoperto tutto il male del mondo che « è annidato dentro te, dentro te dentro te ». E proprio alle interruzioni volontarie, ai suicidi è dedicata l’ultima sezione del libro, Aurora con rasoio.
È da quest’ultima sezione che riverbera la luce, a volte sinistra, a volte tenera, della ragione significativa di tutto il libro, attraverso lo sviluppo delle precedenti tre sezioni, Linea intera, linea spezzata eponima del titolo complessivo, Nove tappe del viaggio notturno, Dialoghi con le ore contate. In verità non si può ritenere inverosimile che il poeta abbia compiuto una sua “discesa all’Ade”, della quale è magnifica metafora la situazione reale di una discesa in un garage-posteggio metropolitano dallo strano nome “A.D.E.” («… scendo/lentamente nello scuro… /… scendo/fino a un vasto piazzale deserto con due o tre auto / di un altro tempo,…»), dove, in un’oscurità che non conosce alba, ha compimento la poesia dell’incontro e del distacco. La scrittura, allora, diviene evocazione e testimonianza di ciò che è stato: progressivamente i luoghi, gli amici, gli amori sono convocati per l’ultima volta dalla parola del poeta in un tempo immobile, «su un confine tremendo, tra un nulla e l’altro nulla». Sono dialoghi che avvengono in una dimensione a tratti onirica, altre volte più tangibile, quasi che le parole uscite da bocche a noi sconosciute si possano afferrare, trattenere («… mille voci che credevi disperse ritornano vive»), rivisitazione di luoghi – quelli di una Milano perduta e ritrovata –, viaggi notturni, corse di tram chiamati per numero, dunque per nome, come vecchie conoscenze. Tutto il passato ritorna, non più nella vertigine dell’attimo, ma nella staticità fotografica di una scena che non è «di questa terra», come esplicitato nella poesia di apertura del libro, Nemini, evocativa di una corsa in tram. Fin da questa prima scena itinerante della discesa, in cui dal vetro appannato appaiono «spettri che corrono / sulle rotaie», si percepisce l’alterazione del modello classico della catabasi: non il viaggio di un essere vivente nell’oltretomba, ma quello nella città-mondo di un io sospeso nel limbo generato dal percepirsi sempre in bilico tra resistenza e cedimento al proprio congedo, un io a cui tutto ritorna spettralizzato dall’emersione del nulla. Un ripercorre i luoghi di una geografia affettiva, un aggirarsi senza fine in una città purgatoriale, avvolta nella penombra dell’antico “Ade”, dove i volti che si incontrano si credono ancora semplicemente smarriti. Solitudine, silenzio, senso del tragico, sono aspetti che prevalgono in questo attraversamento che proviene dall’infanzia, passa attraverso l’adolescenza, arriva all’età adulta e chiude con la morte.
Qui il lettore non deve cadere nell’equivoco di una lettura meramente semplicistica. Il poeta ostinatamente e coerentemente con la sua linea di cammino, nella vita come nell’opera, ha voluto guardare fino in fondo nell’abisso della morte, perché solo così si percepisce e si vive realmente il senso autentico della vita, con la forza e il coraggio di sprofondare lo sguardo in questo abisso, rispecchiandosi in esso per comprendere che la possibilità di togliersi la vita appare inseparabile dalla vita stessa. Paradossalmente, quasi, la parola estrema del poeta sembra testimoniare che attraversando questa possibilità tragica si può scorgere il volto bifronte della vita, e da ciò può nascere una vera e libera adesione ad essa, un tentativo di «… far pace con la vita». Dunque, Linea intera, linea spezzata, superato l’equivoco di una lettura fuorviante, può rivelare il suo messaggio di convinta fedeltà a una visione dell’esistenza tragica sì – in un momento in cui si potrebbe cedere alla fragilità dell’età, alla sterile rassegnazione di un vittimismo autolesionistico –, ma alla quale non si può non confermare la propria fedeltà, pur consapevoli del “niente” che rende la vita terribile e sublime: « noi resteremo fedeli a questo bar, destinati entrambi al niente, al grande niente / che ci dona la visione ». Se di “discesa all’Ade” si può parlare, la si deve ritenere necessaria, riscontrandone la necessità, per esempio, nell’affermazione che Giorgio Bassani mette in bocca al personaggio Geo Josz, protagonista del racconto Una lapide in via Mazzini: «I poeti, se sono veramente tali, tornano sempre dal regno dei morti. Sono stati di là per diventare poeti, per astrarsi dal mondo, e non sarebbero poeti se non cercassero di tornare di qua, fra noi […]; i poeti sono qua per far sì che l’oblio non succeda.».