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Karl Parsimagi

Mi capita spesso di pensare, guardandomi attorno e vivendo in mezzo agli altri, di cosa avrebbe davvero bisogno la gente. Me compreso. Siamo tutti gente comune, e questo è quello che ci apre un senso più grande della parola stessa, a volte connotata in senso negativo, perché ci immerge in un unico e armonico viaggio di esperienza, là dove la nostra vita tende. Vivo la quotidianità di tutti, l’unica possibile e inevitabile, diciamo pure necessaria, che è fatta di immersione nella percezione di sé e del prossimo, per quanto possibile e limitata da ciò che ci è concesso dalla natura. Al di là di riduttivi ragionamenti sociali ed epocali, proprio perché il confronto con altri tipi di società e tempi culturali è sempre un’ipotesi, un’immaginazione. Quando mi capita di leggere o di sentire “una volta”, mi domando “una volta” quando? Sappiamo bene che dire 20, 30, 50 anni fa, così come un secolo e ancora di più, ci è propriamente impossibile, visto che o non l’abbiamo vissuto o non lo percepiamo più come eravamo allora. Bene, allora da dove partiamo? Non dal tempo cronologico e da un passato ipotetico bensì, credo, dalla sensazione del presente, da quello che sentiamo dentro come soggetti e il ponte che ci rimanda al fuori, alle realtà, quella specifica con la quale entriamo in relazione ogni giorno, che è poi il grande teatro posto davanti ai nostri occhi, l’unico vero spettacolo nel quale entriamo in scena. E allora, cosa desiderano le persone? Lascio da parte le necessità materiali, ovvie, scontate, congenite all’esistenza di ognuno, imprescindibili. E di queste, naturalmente, non facciamo che parlarne, discuterne, reclamarle, in ogni ambito esistenziale, soprattutto quello economico politico. Sì, ma poi? Ogni sfogo, malessere, frustrazione, insoddisfazione, paura, angoscia, rabbia, infelicità manifestate giornalmente dagli esseri umani, da dove partono, dove hanno origine, in quale remoto e nebuloso luogo cominciano a farsi strada? Io credo che la questione sia al di là di ogni tempo o società. Che ancora oggi partiamo tutti dallo stesso identico desiderio: l’amore.  Direte voi: questione affrontata, dibattuta, espressa, manifestata dall’uomo in ogni forma di comunicazione da quando ne ha avuto la possibilità attraverso gli strumenti di cui si è impossessato con l’evoluzione: segni, figure, parole, musica, immagini. Appunto. Qual è, di gran lunga, la questione fondamentale della specie umana espressa attraverso tutto ciò? I sentimenti, l’amore. Ogni metafora linguistica di qualsiasi attività umana contiene una percezione della realtà affettiva: in medicina le cellule tumorali “impazziscono”, i gruppi di lavoro aziendale diventano una “grande famiglia”, la squadra di calcio di turno viene invitata a essere “cinica”, “cattiva”, a saper “fare male” all’avversario, nel gioco, per arrivare alla vittoria. Questioni umane, umanissime, visto che l’uomo stesso può non credere a nulla, ma nessuno è un ateo del cuore. Non potrebbe, non gli riuscirebbe nemmeno in quei casi in cui troviamo l’espressione “anaffettivo”, perché lo giudichiamo dall’esterno, è una sentenza spietata, crudele, data dalle nostre percezioni sulle parole e sui comportamenti dell’altro. Anaffettivo per chi? Per cosa? In base a quale strumento misuriamo la capacità di provare sentimenti? E un individuo, sebbene non possa o non sappia esprimerlo, può non provare nulla per qualcuno o qualcosa? Vite minuscole è un libro di P. Michon dove l’autore tratteggia, fra ricordi e invenzione, una serie di figure marginali, sconosciute, alle quali l’esistenza non sembra aver dato molto spazio né possibilità. Per fare cosa? Per vivere come? Rispetto a chi e a che cosa? È  qui la straordinaria capacità dell’autore che disegna e mette ai margini, cioè al centro, la vita di questi individui “minuscoli”, che come tutti non hanno o hanno avuto altra possibilità che la vita. Chi non è una vita minuscola, e allo stesso tempo un’espressione maiuscola di ciò che avviene dentro di noi? Tutto dentro di noi è grande, perché è nostro. Sia il vuoto, il non sentire niente o il pieno, credere di sentire tutto. Michon ce lo dice bene in un passaggio finale del libro, quando cerca di spiegare perché è possibile raccontare soltanto vite minuscole, quelle anonime e comuni, dalle quali nessuno può sottrarsi e infinitamente ritrovarsi: “Eppure la loro ricerca, la loro conversazione, che non è silenzio, mi hanno dato felicità, e forse anche a loro ne hanno data; dalla loro nascita abortita spesso sono stato lì lì per nascere, e sempre lì lì per morire insieme a loro; avrei voluto scrivere dall’alto di quell’attimo vertiginoso, di quella trepidazione, giubilo o inconcepibile terrore, scrivere così come un bambino senza parole muore, si dissolve nell’estate: con un’enorme, quasi indicibile emozione. Nessuna potenza stabilirà che non ci sono per niente riuscito. Nessuna potenza stabilirà che la mia emozione non è per niente esplosa nel loro cuore.”

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