Le “Poesie creaturali” di Tiziano Fratus, “scintille” che accendono il “paesaggio interiore”.

L’attesa, la quiete, la penitenza, il dubbio, la mutevolezza, il candore, la speranza, il respiro, la resistenza, la sacralità, il ricordo, la cura, sono “scintille” che accendono il “paesaggio interiore” di Tiziano Fratus, autore di “Poesie creaturali”, edito da “Libreria della Natura”, impreziosito dagli interventi di Leonardo Caffo, Franca Alaimo e Susanna Mati. Versi spirituali, duttili come l’acqua, accolgono la forma che li accoglie. «Radici, foglie, / semi, ombre, nidi e canti fra le fronde. E un / passo che si avvicina», il poeta medita, include il proprio silenzio al silenzio del bosco che vibrano insieme in «un’assonanza che ricorda il punto di partenza e / il punto di arrivo». Fratus ci conduce dentro la congiunzione ininterrotta dell’amore prodigato dal creato, dentro l’attimo che svela il mistero dell’esistenza: «La natura / umana non è la roccia, è il fruscio / del volo d’un cardellino».

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Proprio non ne ho ricordi. Ricordo la prima curiosità che provai per un poeta e il suo percorso, la sua piccola chimica a orologeria. Avevo vent’anni, mese più, mese meno, un documentario visto di notte, un sabato notte, su Rai 3, a «Fuori orario», esplorazione del poeta newyorkese e buddista John Giorno. Raccontava della sua pratica, della sua vita, del suo vivere la poesia, delle sue serate di concerto e poesia performata, delle ultime ore di vita di William Burroughs, di cui fu l’ultimo amante. Scrissi, qualche tempo dopo, alcune poesie, che finirono in un primo libro dal titolo latineggiante, Lumina, e un poemetto trasognato che mettemmo in scena a Torino, in una piccola galleria d’arte, L’autunno per Eleni, col testo scritto sulle pareti. Gli spettatori si sedevano dentro il testo, ne erano circondati. E poi c’era l’attrice che recitava, molto brava (è anche un’ottima poetessa, fra l’altro).

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi versi che non dovremmo mai dimenticare?

Non so rispondere. Credo sia molto personale e molto occasionale. Dipende anche da quel che sta accadendo nella nostra vita.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (altrui) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Direi un Frost qualsiasi. O un passo di Paterson di William Carlos Williams. O una poesia di Thomas McGrath, una di William Stanley Merwin, o un poema dell’australiano Les Murray. Oramai, purtroppo, tutti morti. Il mio Eden poetico è composto di spiriti.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Sono fedele ad un vecchio moto: la poesia è materia in cerca di definizione.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Quando sa parlare a te che la leggi o la ascolti.

La poesia necessita più di ascolto o di essere ascoltata?

Credo di nulla. Può essere ascoltata ma non è necessario. Esiste anche una bellezza, un’armonia che si compie a sé stante. Un po’ come certi alberi che sono magnifici, che disegnano paesaggio anche se nessuno li guarda. Ma se una comunità ne gioisce è meglio.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Credo sia sempre lo stesso: creare con le parole di sempre qualcosa che non c’era. Purtroppo però mi pare che la poesia dei nostri giorni, quantomeno quella che raggiunge un ampio consumo, si sia trasformata in una simulazione della poesia e del poetare, una sorta di pantomima dove quel che conta sia il respiro immediato, il gioco simpatico, la trovata “creativa” o il dolore manifesto; esercizi, stupefazioni.

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?

A mio parere deve più che altro maturare in autenticità. Questo lo diceva bene il monaco trappista Thomas Merton, che fui anche un poeta interessante. In una raccolta di saggi dal titolo Semi di contemplazione scrive: «Molti poeti non sono poeti per la stessa ragione per cui molti religiosi non sono santi; essi non riescono mai ad essere se stessi. Non riescono mai ad essere quel particolare poeta o quel particolare monaco che Dio intendeva essi fossero. Non diventano mai l’uomo o l’artista richiesto da tutte le circostanze della loro vita individuale. Essi perdono gli anni in vani sforzi per essere un altro poeta, un altro santo». Secondo me questo è un rischio che corrono gli autori, e dunque anche i poeti. Essere talmente affezionati, così intimamente ossessionati dai propri miti letterari, dalla voce di certi “grandi poeti” del passato o del presente prossimo, che se ne diventa emuli, si ripetono, si ricalcano, si vive nel solco di questi segni senza maturarne di propri. È una meccanicità suadente.

Qual è stato, ad oggi, il più grande insegnamento ricevuto in dono dalla poesia?

Lo stesso che si riceve dalla vita e dalle prove d’amore: l’umiltà. Più avanzo e più ho esperienza, e più mi pare inaudito riuscire a comporre una poesia che abbia un senso per me quanto per altri eventuali lettori. L’umiltà è una dimensione così facile da dire, da indossare o da esibire, ma è così severa, complessa, ostica, da apprendere e ancor più da praticare.

Per concludere, ti invito a scegliere tre poesie dal tuo nuovo libro, Poesie creaturali (Libreria della Natura, Milano), per salutare i nostri lettori.

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 28.07.2019, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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