Ho scritto questo libro perché non volevo andasse perduto quanto vissuto durante lunghi undici anni alla cassa di un supermercato. Soprattutto non volevo andasse perduta la memoria, seppur minima, di alcune delle persone con cui sono venuta in contatto. Un contatto vero, umano, che è andato oltre i gesti e le parole che il mio angusto ruolo richiedevano. Poi c’erano i foglietti di carta che affollavano le tasche del mio camice e la penna sempre a portata di mano per rispondere alla mia vocazione alla poesia Ho cercato di andare oltre, di oltrepassare l’arida meccanicità che il mio lavoro in sé richiedeva, ho alzato lo sguardo dai numeri del display per incontrare gli occhi di chi mi stava davanti. Ho cercato di vedere le persone così come sono, con le loro debolezze e le loro grandezze e di affidarmi al fatto che non sapevo altro di chi mi stava di fronte se non che era il mio prossimo, nel senso più ampio e lato del termine. Un essere umano con la sua storia invisibile, una persona cui dovevo rispetto, attenzione e gentilezza così che quei pochi istanti in cui eravamo in relazione si aprissero a un tempo altro. Ho cercato di scoprire tra la polvere quotidiana il granello di purezza che c’è, come dice Simone Weil, anche se non sempre ho trovato la purezza, forse perché si esprime solo a sprazzi, in attimi che pure esistono e quando arrivano illuminano il tempo, ne levigano il senso. Il poeta, da sempre, si fa intermediario tra la realtà altra e il mondo e tra l’uomo e l’altro uomo, riportando la mente nel cuore con il proposito di “leggere altrimenti” la realtà che ci circonda. Le stanze inquiete perché ho immaginato ognuno di coloro di cui racconto, come una stanza di cui riuscivo a sbirciare l’interno dallo spazio che essi mi concedevano. Visti e detti per inserire loro e me, nel complesso quadro dell’esistenza. Alcuni, quindi, solo raccontati, altri tradotti in spunti per riflessioni e considerazioni sull’umano.
Uno stare con lo sguardo orientato verso l’umano e illuminato dalla poesia, un oscillare tra il dettaglio realistico e la vibrazione lirica.
sette poesie scelte da Le stanze inquiete di Lucianna Argentino, La Vita Felice, 2016.
Sto qui senza vocazione, ma ogni giorno rispondo,
ogni giorno, pellegrina dell’umano, vado di volto in volto,
piegata al sì dagli occhi e quando l’anima stanca
cede al disamore li faccio tornare bambini,
li riconsegno all’infanzia o a Dio,
così mi stanno dentro per amore e non per dovere.
*
Rosina era una delle tante
confusa e sfocata tra le tante,
diversa appena per quell’accento calabrese
custodito in bocca come una zolla della sua terra,
ma improvvisamente unica e nitida,
quando indicandomi due ragazzi neri
in fila alla cassa accanto, signorì, mi ha sorpreso,
lei magra e piccolina, hai visto quanto sono alti!
Chissà quanta strada hanno fatto poveri figli!
*
Pina un metro e cinquanta di acciacchi
mi dà monete dal calore buono
e un po’ rassegnato come il suo sguardo
velato di pianto nel raccontarmi che il marito,
malato da tempo, l’ha svegliata in piena notte
e le ha detto Pina, Alberto se ne va…
E se ne è andato, come ce ne andiamo tutti,
già distanti gli uni dagli altri
per certi invalicabili silenzi.
*
Sei piani e cinquecento sessanta passi
tra me e questo armadietto di grigio metallo
dove il camice attende il mio corpo
per farsi anima e generare foglietti
in gestazione di parole, nate per fame e per sazietà.
Negli occhi degli uomini il pane delle stelle
mi è parso buio e raffermo, i versi di Char
puntellano questa giornata che mi sta davanti
tutta intera, tutta in luce. Ma ecco
ora è questo l’ombra, questo stare nell’affanno del fiato,
nella me stessa di cui si spartiscono le vesti
cose adiacenti al nulla.
*
Franca mi confida che il figlio ha dei problemi.
È timido, chiarisce e candidamente aggiunge
ma mica c’è nato sai, c’è diventato,
a voler dire che lei l’ha fatto sano
e poi chissà cosa l’ha guastato.
Ma forse è il nascere a guastarci,
quel giungere – da dove? – quell’essere in fieri,
che fa di noi dei diventati.
*
È un abito logoro il tempo toppe e rammendi sfidano l’usura
del guardare ascoltando, dello stare in bilico…
da grande voglio fare la cassa… mi tirano per il camice
le parole della bambina alla mamma, mentre è me che guarda.
Sbagliato il sostantivo, confuso il nome comune di cosa
e di persona: cassa e cassiera.
Facendone un tutt’uno in lei sbaglia l’infanzia,
in altri una banale arroganza.
*
Perché è nato così?
chiede la bambina alla nonna
vedendo un giovane mendicante storpio
accovacciato vicino all’uscita.
Già, perché sono nata così mi chiedo io
che da tempo tento di rispondere a cosa sia la vita,
a cosa significhi amarla,
che provo a farne un grazie stordito ma vivo,
a farmi sponda accogliente
per sfidare occhi anchilosati,
per lastricare fisionomie impervie.
Le due si allontanano, attraversano il parcheggio
tenendosi per mano, portando via la risposta
che non ho sentito. Come ognuno porta con sé
il vagito della nascita senza sapere quale parola
in esso si nasconda o ne sia l’eco.
O se sia il sì alla chiamata della vita,
quel sollecito al difficile compito
di morire migliori di come si è nati.