L’esordio dell’attrazione (per un nuovo inizio)

Parte da domani, inaugurata da Vito M. Bonito, la rubrica intitolata Dall’inizio a cura di Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto; proporremo, con una cadenza mensile/bimensile, gli “autocommenti” di autori di poesia contemporanea. L’idea, come spiegano di seguito i curatori, è sostanzialmente quella di cercare “un punto di rottura, una crepa che apra al diverso, al mondo”.

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E noi: spettatori sempre, in ogni dove
sempre rivolti a tutto e mai all’aperto!

Rilke

 

Oggi in poesia si parla troppo della fine. Fine di un sistema di valori legato ancora a un apparato ideologico trapassato e da cui è emersa in maniera ormai massiva l’attuale western way of life; fine di una dialettica che sosteneva le pressioni di un mondo inteso in maniera ambivalente, dissociata. Infine, come condizione concettuale che ammanta il pensiero occidentale dal termine del secolo scorso e si proietta sul nuovo, eterno non finire della catastrofe (in primis “antropica”, perché è l’uomo la prima minaccia per un ambiente che rischia di diventare sempre più ostile). 

Non si parla, invece, dell’inizio, di una possibilità e, a nostro avviso, di un’emergenza che si fa sempre più pressante. In tale direzione, alcune poetiche sviluppatesi nelle generazioni nate tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’80 del secolo scorso, sembrano consolidare l’impasse tutta novecentesca riassumibile nel motto «in my end is my beginning» di eliotiana memoria. Insomma, la poesia italiana, per dirla in maniera spicciola, non ha ancora digerito la lezione di Montale e pare barcamenarsi tra la riproposizione della cantabilità lirica e più ardite sperimentazioni. Una terza strada (almeno a detta del poeta che l’ha individuata, vedi Mondi e superfici. Un dialogo con Guido Mazzoni, intervista a cura di Gianluigi Simonetti), che cerca di riunire le forbici estreme del recto e del verso della poesia montaliana, non sembra però ancora in grado di aprire una breccia verso una fuoriuscita dalla grande sintesi del poeta ligure e, quindi, è il sintomo di una situazione stagnante. 

Senza voler andare troppo a fondo nelle questioni di poetica, la nostra rubrica si pone il compito di focalizzare un punto del dibattito a volte trascurato: il concetto di apertura al mondo, legato alle necessità relazionali intrinseche al linguaggio della poesia, un’urgenza di attrazione suscitata dall’alterità, dal diverso inteso in senso ampio, partendo dall’evidente marginalità dello stesso linguaggio poetico su un piano sociale. 

L’autocommento ai testi non dovrà vertere su analisi tecniche e compositive, bensì, cercare, pur sempre viaggiando attraverso la trama testuale, un punto di rottura, una crepa che apra al diverso, al mondo (inteso, ancora una volta in senso ampio, dal sociale all’ontologico, ecc.), cercando di evitare il rischio di una riflessione egocentrata. Ecco, proprio il nostro essere senza indirizzo induce a una continua trasformazione, «di trasporto, di trasposizione o di trasmutazione», come afferma Nancy in L’equivalenza delle catastrofi (dopo Fukushima), con cui dobbiamo fare i conti senza possibilità di stabilire una tregua col mondo, perché immersi, anzi compartecipi e, sempre con maggior peso, protagonisti della sua metamorfosi. 

(Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto)

 

 

La ph in copertina è tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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