“L’estate del mondo” nei versi di Gabriele Galloni.

Intravedere la chiusura del cerchio nell’opera di un giovane poeta come Gabriele Galloni (classe 1995) è forse un abbaglio, tuttavia, la raccolta L’estate del mondo (Marco Saya, 2019) ha tutta l’aria di completare una circonferenza, nella speranza che Gabriele non abbandoni così precocemente il suo raffinato compasso.
Considerando le sue pubblicazioni prima della silloge in questione e senza dimenticarci della provocazione di Olimpia Buonpastore, L’estate del mondo contiene tutte le versioni del Galloni poeta e personaggio, chiudendo idealmente, per l’appunto, il cerchio, e unendo i punti che – alcuni collocati apparentemente a notevoli distanza fra loro – sono invece accomunati da coerenza stilistica e tematica.
Vorrei evitare ogni fraintendimento: io non sono interessato alle infinite e spossanti discussioni intorno a Galloni e alla poesia in generale, men che meno alle sue iniziative dissacranti: Galloni è un poeta di pregiato conio, nonché un giovane coraggiosamente incauto (ho il doppio dei suoi anni e credo di poterlo affermare) e totalmente immerso nel suo tempo, tempo che comprende (quale dimensione aggiuntiva) la “relativa perpetuità” della rete e delle possibilità dalla rete offerte, che Galloni dimostra di usare con non poco acume.
Ecco, quindi, il poeta in tutte le sue sfaccettature.
L’endecasillabo la fa da padrone, ma ci sono dei sapienti sconfinamenti in settenario.
Ritroviamo degli accenni al suo libro forse più noto (In che luce cadranno), ma anche ai temi incontrati nei racconti di Sonno giapponese.
Incappiamo, inoltre, in alcuni versi che odorano di Buonpastore, il tutto fuso in una raccolta omogenea, a indicare la crescita e l’evoluzione del poeta.
È un Galloni lirico, a tratti incantato (la luna compare in diverse poesie). L’Io ci parla di emozioni, alcune volte sfumate, dietro le righe.
È rara e preziosa l’inutilità della poesia; per chi si ostina a dover cercare uno scopo, una collocazione che non sia la bellezza dell’atto artistico sopra ogni cosa, ne L’estate del mondo troverà come unico fine la poesia stessa.

 

La Luna, questa sera,
è l’ombra di un insetto
che avanti e indietro e avanti
va per le stanze vuote
di una villa a Focene.

Tentiamo, al buio, di raschiarla via.

 

*

 

Arrivasti alla storia della Luna:
di come capitò che la scoprissi
nella sua casa una notte di eclissi;
nella sua casa dove mai a nessuna
viva persona era dato di accedere.
La descrivesti nuda, la tua Luna;
la descrivesti coperta di cenere
dal capo ai piedi; Luna che più Venere
sembrava e penitente. Non avresti
potuto dirmi certa la paura;
né sotto i piedi l’umido e le tenere
felci; solo che ai giorni del Miracolo
è bello correre, andarsene via
da ogni luce che sia
troppo grande per queste nostre mani.

 

*

 

Luna di luglio: dalla tua finestra
scoperta di sfuggita sopra il mare.

Per poco, ma l’abbiamo fatta nostra
pensando fosse un fondo di bicchiere.

Luna di mare; ciotole di legno
in fila tutte lungo il davanzale.

Il cielo non si asciuga – intanto
la marea sale.

 

*

 

In tutti i sogni un’ombra sconosciuta
dietro le cose amate – e com’è strano
amare in sogno. E in sogno ricordare

ogni parola detta al buio, piano,
per non svegliarti e non svegliarmi; e fuori,
nel sogno e nella vita, già qualcuno

che aspetta l’alba bruciando dei fiori
di plastica.

 

*

 

Ricordaci – come ricordi l’ultima
          stanza della tua casa al mare, in fondo
         al corridoio e piccola così
        da contenere a malapena un letto.

       Sarà il tempo per noi sempre più stretto
       rifugio.

 

*

 

Immaginammo un mare dietro l’ombra
dei caseggiati popolari; e invece
dell’acqua una radura vasta, sgombra.
E noi di chissà quale muta specie.

 

*

 

E quelle lampade in carta di riso
rimangono accese ogni notte
nel prato dietro la tua casa nuova;
lo sai che sono l’ultima promessa

dell’estate? Come a dire: che non piova
mai sulla costa e sempre si mantengano
i mesi intatti – e la tua casa nuova.

Ecco. Una specie, questa, di preghiera.

 

*

 

Le ossa si raccoglievano
da terra umide ancora;

bisognava raschiare
la carne al sole estivo

per rendere quelle ossa
lucenti alla controra

del giorno successivo.

 

*

 

Era la casa di mio padre al mare;
la penombra dei nostri nascondigli
e la strana ferocia degli agguati.
La parabola eterna di essere figli
desideranti e già indesiderati.

 

*

 

Erano i giorni delle case identiche,
delle case violate, delle notti
segnate a passo dai cani randagi
che scendevano a frotte dalla collina.
Erano i santi giorni di tua madre
trovata morta nell’atrio; la gola
squarciata lato a lato.

Potrebbero interessarti