Luigi Carotenuto, “Krankenhaus” e l’eterna “riabilitazione” della poesia.

«Mi piacerebbe accatastare fusti/ di ricordi e farne un rogo/ alto come una guglia/ aggrappata alla vertigine,/ allo stremo del coraggio umano». Versi scelti per introdurre la lettura di “Krankenhaus”, polisemica plaquette di Luigi Carotenuto pubblicata dalle esclusive edizioni “gattomerlino” di Piera Mattei. “Questi testi raccontano un evento, sono una cronaca di come si costruisce un’assenza, quando l’oggetto di questa assenza non è ancora sparito, ma si immagina la sparizione. Così l’immaginazione inizia la sua battaglia con gli oggetti reali: vincendo e perdendo senza sosta”, scrive Leonardo Barbera nella presentazione. Leggendo ci si specchia in un tempo sospeso dal duplice dire del poeta, a se stesso come al padre che ‘preme’ immobile, (silente). Leggendo guardiamo al significato inconscio delle nostre congiunzioni, delle nostre fratture («fingerci interi»), delle nostre ambizioni («stazioni terremotate»). È un’asciutta misura di versi, rivelatrice, come nello stile di Carotenuto che (in ogni modo) non smette, (sente), «il desiderio, la muta/ corsa dei colori, le risate dei compagni», e, componendo, trasfigura l’esperienza in un presupposto universale. Un testo poetico inesausto, catartico, pacificante, un po’ come l’amatissima Catania, città materna, citata nei versi di chiusura del libro («La bellezza può darsi l’abbiano tutta sepolta,/ nascosta per bene»). L’eterna riabilitazione, direbbe Zanzotto, è (anche) il vissuto concesso al farsi continuo della poesia.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Ricordo che scrissi qualcosa alle elementari, avevo citato un gattino nel testo, sono cresciuto tra i gatti e li ho sempre amati più di ogni altro animale. Una compagna di classe mi esortò a scrivere poesie in quell’occasione (forse uno specifico compito) ritenendomi (ai miei occhi immotivatamente) all’altezza, probabilmente le sembravo il più indicato perché avevo spesso un’aria trasognata.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

Caproni, Zanzotto, Pirandello, Ionesco, Goethe, Novalis, Hölderlin, Rimbaud, Baudelaire, Poe, Lovecraft, filosofi greci e tedeschi, moralisti francesi, autori di sociologia, psicologia e psicoanalisi.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi versi che non dovremmo mai dimenticare?

Daria Menicanti, per la sua intelligenza acuminata, l’ironia e la sensibilità eccezionali.
Questo testo, ad esempio, lascia senza fiato e dentro un turbinio di bellezza autentica, dinamica, vitale, inoltre mette in luce la centralità dell’infanzia, luogo poetico, creatore, per eccellenza:

È ancora capace di infanzia: È ancora capace di infanzia / il tronco ficcato sul cuore / della città. Una luce d’alba gli esce / dai rami, ai piedi gli si affolla / tremando un subbuglio di verde. / A un vento improvviso lo zampillo / della fontana gira verso il tronco / assentendo approvando: – D’accordo, / sussurra, la vita / può essere ancora bella

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

Prendo appunti spesso fuori casa, in momenti diversi, credo nell’urgenza interiore oltre al lavoro quotidiano che indubbiamente può dare frutti, nel mio caso si sedimentano brani di conversazioni con amici o strappate a passanti, vicini di tavolo in un locale, suggestioni da film, quadri, sogni, briciole di segni che raccolgo, e spesso inconsapevolmente interiorizzo, per poi traboccare, come il vino la cui effervescenza fa saltare il tappo. Senza dubbio, restano comunque le ore notturne quelle in cui tendo a immergermi meglio dentro le acque immobili o caotiche della scrittura.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Mi viene in mente una definizione di Lacan sul Reale, dice: il reale è l’impossibile. Ecco, anche la poesia è l’impossibile, nel senso che sfugge a strette demarcazioni e condensa in sé (o può farlo) il detto e il non detto, l’astratto e il concreto, il futuro e il passato, il ricordo e la profezia, coinvolgendo piani sensoriali, estetici, spaziali anche in antitesi. Sant’Agostino ne Le confessioni si esprimeva così: “io so che cosa è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo”, lo stesso può dirsi della poesia, per quanto mi riguarda.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Quando senso e suono sono in equilibrio nella struttura del testo e non c’è un di più all’orecchio e all’occhio. Tuttavia molto dipende soggettivamente dall’autore, da dove vuole condurci e in che modo costruisce il suo palazzo in versi, se questo ha una coerenza interna rispetto alle intenzioni, pur nelle eventuali deformità e sbavature. Se penso ad esempio a Van Gogh per l’arte, le sue “imperfezioni” rispetto a un ipotetico realismo, lo rendono originale. La soggettività può diventare la cifra di un poeta, di un artista, se non si trasforma in tic e automatismo.

Qual è (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia?

Immagino più che altro uno spazio franco, dove le diversità di stili, le parole con i loro accostamenti e le costruzioni verbali, sono lasciate libere di esistere, immagino prati sconfinati per la poesia, non cellette dove standardizzare le poetiche.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Dare respiro al senso di libertà che portano le parole, farci riappropriare della festosità del linguaggio, della sua complessità piena di colori, avvicinandoci alla molteplicità dei sensi e dei registri. La poesia potenzialmente può farci amare qualunque disciplina, può ravvivare il reale.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Le lettere a Lucilio di Seneca, in particolare la lettera 23, intitolata La vera gioia
“Raggiunge il culmine della sapienza chi sa di che cosa debba gioire e non pone la propria felicità in potere altrui. […] desidero che non ti manchi mai la gioia, anzi che ti nasca in casa; e nascerà, purché essa sia dentro a te stesso. Le altre forme di contentezza non riempiono il cuore, sono esteriori e vane; a meno che tu non creda che uno sia allegro solo perché ride. È lo spirito che deve essere allegro ed ergersi pieno di fiducia al di sopra di ogni evento. Credimi, la vera gioia è austera. […] Vorrei che anche tu possedessi questa gioia: essa non ti verrà mai meno, una volta che ne avrai trovato la sorgente. I metalli di scarso valore si trovano a fior di terra; quelli preziosi si nascondono nelle profondità del sottosuolo, ma daranno una soddisfazione più piena alla tenacia di chi riesce ad estrarli. Le cose di cui si diletta il volgo danno un piacere effimero e a fior di pelle; e qualunque gioia che viene dall’esterno è inconsistente. Questa di cui parlo e a cui tento di condurti è una gioia duratura, che nasce e si espande dal di dentro”.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare una tua poesia dal libro, “krankenhaus” (perché un titolo in lingua tedesca?) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Il titolo è emblematicamente arrivato nei giorni in cui (fine 2011) vegliavo mio padre all’ospedale di Giarre, e, in una di quelle pause, fatta per staccare mentalmente da quella prospettiva difficile da sostenere, andai a mangiare qualcosa in un pub di Riposto. Quella sera avevano organizzato uno di quei giochi a quiz con domande di cultura generale con uno schermo grande e un presentatore, alle quali gli avventori ai tavoli rispondevano dalle loro pulsantiere. Una delle domande poco dopo essere arrivato è stata letteralmente: “Come si dice ospedale in tedesco?” Krankenhaus. Quella parola mi ha subito fatto pensare al “crac” dell’osso spezzato, il femore, motivo del ricovero di mio padre.
Quella sera ho iniziato febbrilmente a scrivere per due-tre giorni, interrotti solo da pochissime ore di sonno, l’intero libro, che, per la stesura definitiva, è debitore “al miglior fabbro” Leonardo Barbera, amico poeta il quale ha donato un filo robusto ai testi sparsi e magmatici delle prime versioni (più corpose quanto dispersive), trovando una regia controllata, autenticamente fedele al sentire melanconico, ironico, sarcastico iniziale, e Piera Mattei, qui nelle vesti di editrice tra le sue molteplici (poetessa, autrice di racconti, traduttrice, acquerellista), per aver dato domicilio al libro con una sensibilità e onestà a dir poco commoventi.

Scelgo i versi di chiusura del libro, perché citano l’amatissima Catania, città materna, di luci e ombre, il cui ricordo mi fa ri cunottu (di conforto), amata ancora più intensamente da lontano per tutto quello che mi ha dato e non smette di darmi quando torno. Questi versi nascono, freudianamente direi, per esorcizzare il senso incombente della presenza di thanatos: Mi domando il senso di tanto brulicare di persone / in piazza, di facce assenti a due passi da Catania Vecchia. / La bellezza può darsi l’abbiano tutta sepolta, / nascosta per bene.

Luigi Carotenuto, ph di Conrad Leonelli.

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 27.12.2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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