Al MacS, PoetArte a cura di Grazia Calanna

PoetArte a cura di Grazia Calanna al MacS 2016

Sabato 21 Maggio 2016 il MacS (Museo di Arte Contemporanea Sicilia), diretto da Giuseppina Napoli, aderisce all’iniziativa culturale La Notte Europea dei Musei riproponendo, dopo il successo degli scorsi anni, l’evento culturale intitolato PoetArte a cura di Grazia Calanna nato dal sinestetico connubio tra arte e poesia. In occasione di questa III edizione, dalle ore 21 alle ore 23, interverranno i poeti: Irene Anastasi, Saragei Antonini, Selenia Bellavia, Cettina Caliò, Maria Gabriella Canfarelli, Chiara Carastro, Luigi Carotenuto, Orazio Caruso, Giuseppe Condorelli, Giulio Di Dio, Antonio Di Mauro, Vincenzo Galvagno, Dario Matteo Gargano, Alfio Grasso, Antonio Lanza, Paolo Lisi, Carmelo Panebianco, Alfio Patti, Maria Rita Pennisi, Renato Pennisi, Anna Vasta, Lina Maria Ugolini. Con loro, per dirla ricordando le parole di Italo Calvino, protagonista la poesia ovvero “l’arte di far entrare il mare in un bicchiere”.

Dalle 20.00 alle 23.00 sarà possibile visitare gratuitamente il MacS dove è attualmente in corso l’esposizione della Collezione Macs, Sezione Internazionale, con opere di James Xavier Barbour, Lita Cabellut, Marcia Gálvez Camus, Marta Czok, Thomas Dodd, Enrique Donoso, Lorenzo Manuel Durán, Jorge Egea, Daria Endresen, Fernando Fraga, Steven Kenny, Wenceslao Jiménez Molina, Zheng Lai Ming, Ryan Mendoza, Nihil, Judith Peck, JoséManuel Martínez Pérez, Mario Andres Robinson, Carlos Asensio Sanagustín, Richard Scott, Miguel Escobar Uribe, Santiago Ydanez, Gary Weismann. Ingresso libero.

 

Segue, per ognuno dei poeti partecipanti, una selezione di poesie che saranno lette in occasione dell’edizione 2016 di PoetArte a cura di Grazia Calanna

*

Mi sono cadute le parole di bocca.
A toccarmi le labbra
sentirai ciò che ho lasciato per te.
Il resto
appariva consumato
come candele,
impronte stanche
occhi miopi ed edera sciupata.
E non importa se non vorrai sentirlo
Sto così bene, ormai, spogliata dal peso del superfluo.

(Elisa Irene Anastasi)

 

*

C’era una volta
il qui
che nessuno vedeva –
era piccolo
era ricco
il suo regno
si chiamava presente –
nel c’era una volta
c’era pure il là
che tutti volevano
ma nessuno vedeva –
era lontano
era respiro –
bello e possibile
come il cammello
passato nell’ago –
qui e là
solo qualche volta s’incontravano
e nessuno li vedeva –
nemmeno loro si vedevano –
uno pieno di fama
l’altro che non bastava –
dov’era giorno stava uno
dov’era notte parlava piano l’altro –
qui e là
avevano due braccia due occhi
due gambe due orecchie
avevano l’occorrente per fare
il mondo da qui a là
piccolo e con una grande fama.

(Saragei Antonini, da ‘Egregio signor Tanto’, Edizioni CFR)

 

Referto

Considero la specie nel tramezzo
e non si vede che un’orma di rimando.
La luce non si scopre senza i nervi
e il marmo che chiude questa fossa
non cambia il suo colore sotto il sole:
se la scritta sua sbiadisce
– inezia temporale –
anche miseria è solo una parvenza.
Eppure questi lati si riaprono, ancora
e non per gioco di bambino.
La notte è solo notte
ma l’eccesso non considerato
pioggia non asciuga.
Paralisi sentire il mondo corruttibile,
al confine.
Un passo, una sosta, uno scatto.
Forze discordi,
contrazione o d’astinenza bandolo
come foglie d’acacia
frante di terra.
Poi verranno a prenderci,
la mani già negli occhi,
la facile memoria imputridita
che la minaccia non è fantastichìo.
Considero la specie nel tramezzo:
se la notte stende col martello,
tossicologia non ci serve in un trattato.
Veleno lo vogliamo dentro le vene scure.

(Selenia Bellavia)

 

[Mando a capo il vento]

Mando a capo il vento
chiudo fra le virgole
il freddo ostinato

sorrido sulle tue labbra
ancora un istante

prima che tu apra gli occhi

(Cettina Caliò, da ‘Sulla cruda pelle’ Edizioni Forme Libere)

 

I festi santi

savvu
’nto casciulu sutta i linzola stirati,
u fazzulettu
di trintanni arreri
unni lassai lacrimi e raggia,
ti nni isti na vota
pi tutti
e ti vinnimu a pigghiari
nuatri figghi
e ti misumu cà, senza valiggi
ca ti puttaunu fora
ca ti puttaunu intra
sulu
du voti l’annu,
pi festi santi,
i festi cumannati
– ca ruravunu picca.

Le sante feste
conservo/nel cassetto sotto lenzuola stirate,/il fazzoletto/di trent’anni fa/dove ho lasciato lacrime e rabbia,/te nei andato una volta/per tutte/e siamo venuti a prenderti/noi figli/ti abbiamo messo qua, senza valigie/che ti portavano fuori/che ti portavano dentro/solo/due volte l’anno,/per le sante feste,/le feste comandate/-che duravano poco.

(Maria Gabriella Canfarelli da “Provi di lingua matri”, 2015)

 

appunti

credi che io scriva le tue parole?

cosa succede se non ti sento?

se ci sono solo strade e ali,

fiati di cavalli che corrono

e chi tifa “che restino vivi”.

ospito dentro di me, gare, clandestine.

chè non potranno mai chiamare al processo

i miei “piccoli” fantasmi.

già ho provato io.

e le ali di una libellula che è caduta dentro me

caduta dentro te

caduto dentro chissà che vicolo. chissà che molo.

(Chiara Carastro, da l’EstroVerso, 5 gennaio 2015)

 

Steccati

S’inventano un padre e una madre gli orfani d’amore
giocano a chi sa fare meglio il genitore
negli occhi l’infinito smarrito
un dio disorientato
corse verso un prato privo di steccato
mi ruotano intorno i loro sogni infranti
gli specchi rotti per non guardarsi
facciamo insieme un nuovo girotondo
vi porto tutti via da questo mondo

(Luigi Carotenuto, da ‘Vi porto via’, Prova d’Autore)

 

*

Il mare prende tutti belli brutti, sognatori folli,
scivola sui destini, ricopre d’onda i campanili,
onora i martiri, restituendoli a pezzi e bocconi.
Il mare è madre figlio spirito santo, puzza di sale.

Nelle sere disilluse i convogli ripartono semivuoti,
né prossimi o clandestini si affacciano moribondi
o profughi sognanti fra carcasse sudate e sedate.
Il vento nasconde la polvere ed inciampa e cade.

(Orazio Caruso)

 

*

E poi ci su i paroli
stritti
‘ncagghiati, chiddi
ca non si diciunu.
Ca appoi è taddu.
Ma cu è ca talia
n’to scuru
da to’ carni
e scava
fino o to ciatu?
Sacciu tuttu di te
ca mi cuncimi
u sangu.
Chiddu ca non t’hae dittu
ancora cogghilu
intra a me ucca.
(Cu ‘masuni)

E poi ci sono le parole/ strette/ incagliate/ quelle che non si dicono/ che poi è tardi./ Ma chi è che guarda nel buio/ della tua carne/ e scava/ fino al tuo fiato?/ Di te conosco ogni cosa/ tu che mi concimi/ il sangue./ Quello che ancora non ti ho detto/ coglilo dentro la mia bocca./(Con un bacio).

(Giuseppe Condorelli, ‘N’zuppilu n’zuppilu’, Le Farfalle, 2016)

 

*

Nel buio
ho riconosciuto
le linee dei tuoi tendini
ho visto l’ombra girare
sul meridiano della mano
e allora ho dimenticato
e ricordato il tuo segreto

noi, che eravamo il nucleo
della notte quelli facili da additare

la partita persa
contro quelli della vita normale

noi, con la notte che per metà ci attraversa
lasciando ancora margine alla scelta
fra assoluzione ed errore fra vanità o incertezza.

(Giulio Di Dio)

 

*

… le ripetute sconfitte subite…
avrebbero potuto degenerare
nella paventata disfatta definitiva
nello sfacelo della resa incondizionata
al potere tirannico dell’estraneità
all’inflessibile volontà distruttiva
del sempre…
invece è bastato solo un segno
quel tuo sfiorarmi lo sguardo smarrito
con un batter di ciglia, un cenno d’intesa
colto quasi per caso essenziale e spoglio
di qualsiasi artificio premeditato
del falso beneficio di una viscida
complicità…
lasciami pure andare
alla deriva di ogni senso di ogni nocivo
rimpianto, preso dal moto spontaneo
che mi spinge verso il confine dell’invisibile
attratto dal naturale annientamento
nel prodigio della luce e ritrovarmi
acceso riflesso di grazia pura.

(Antonio Di Mauro, da ‘Estrema grazia’)

 

MY FAMILY IS NOT IN EXISTENCE

Io a mezzanotte e mezzo vado a dormire a pancia in giù con la testa rivolta a sinistra tra lenzuola profumatissime, stanco per aver studiato tutto il giorno libri di giurisprudenza e poesie di Sylvia Plath.
Mio padre viene a trovarci ogni settimana.
Mia madre porta la mattina a spasso il cane e il suo autismo attraverso tutti i canali dei telecomandi per tutto il resto del giorno.
Mio fratello è teso a spolverarci ogni giorno per allontanare possibili maldicenze sul nostro conto diventa ogni giorno più pazzo.
E il cane? Si chiama Toysh.
Abitiamo la casa dove prima abitavano i genitori di mio padre,
prima di loro chi? Uno dopo l’altro ce ne andremo,
altri respireranno per questi muri.
E credimi noi non saremo mai esistiti.

(Vincenzo Galvagno)

 

Chat

Moderno mezzo di telepatia
sfumata in materiale virtuale
e fisiologica erotofania

Chat: luogo virtuale di scambio,
luogo di espressione di che?
Di Ego e Vanità
Come nel biblico Qohèlet?
Di Vanità e Immagine?
D’Amore e Non-amore?

Ora lei rifiuto
Ora lei ricuso
Ora lei ignoro
Ora la respingo

Quanto son numerose
queste LEI che intendon comunicarmi!
a me che son padrone di parola
ed Hermes, mago, e artista, manigoldo
di linguaggio, lingua Italiana e parola
come ‘l vate scostumato Boccaccio saggio

E mi scrive, mi comunica
e sì, le do chance: le comunico:
Pian pian entro in lei
Entro forte forte in lei e sì
Sente questo fluido e vuolsi toccar
lei là dove si puote ciò che si
vol dir meato di vita, o ancor fica

E ‘l mio fluido pian pian ella sente
solo me sente e d’armonia presente
e ogn’altro pe’ lei or sì è assente
ogn’altro inetto incapace di parola
che ai miei occhi mai parrà concorrente

Mi scrive, mi chiama,
mi vuole e d’altre mi sdama
Mi scrive e mi chiama!

Le mi’ parole, dita di carne che
toccan lei, e lei vuolsi masturbar
e turbar di piacer quel meato, buco
fóro non Romano, ma d’acqua pieno

Lo vuole: mi chiama in chat
mi vuole, e mi vuole perché ho retta
parola, perfetta parola e membro
virile, ed eretto membro e perfetto

Mi dice: “mai niun come te simil cose
m’ha fatte provar: non ho mai provato
tutto questo, a me addosso, addosso a me”

Chat: luogo preliminare d’Eros e Afrodite
voi che ne sapete
si mai v’insolentite?

Quanto deo far pagar
ad ogni toccata prima che
non la trasformi in fuga e
toccata?

Parole mie, orgasmi tuoi
Voce mia, orgasmi tuoi
Parole mie desideri tuoi:
È tutto davvero nella parola
e nella voce questo Eros
che invade il corpo e la mente
di lei, d’ogni lei, ora
sì attenta e viva e presente?

La chat, postribolo moderno
di fottute immaginarie, e con me
or reali, e toccate e come
in Rossini divenute in eterno arie

La chat: è tutto davvero nella parola
e nella voce questo Eros
che invade il corpo e la mente
di lei ora sì attenta e viva e presente?

(Dario Matteo Gargano)

 

Il cannibale

Io dirvi non so come
che fui malato e matto,
Annibale di nome,
cannibale di fatto,
ma che ci posso fare
se, contro l’altra gente,
sceglievo di mangiare
un uomo al dente.

Di certo la mia sorte
non fu gentile e retta,
sin dalle brache corte
mi volle pia forchetta,
così saziai distrutto
i teneri languori,
accomiatai col rutto
i genitori.

Insomma un Ugolino
io fui, ma rovesciato,
stavolta fu il bambino
a compiere il reato,
ma solo col supplizio
potettero salvare
il figlio loro e il vizio
suo di sbranare.

Quando divenni adulto
non mi passò la fame
e senza alcun indulto
il giorno dell’esame
la peggio della scuola,
la mia professoressa,
la misi in casseruola,
la feci lessa.

Intanto che lo Stato
cercava il criminale,
famelico e dannato
viaggiavo col mio male,
andavo per il mondo,
nei meglio ristoranti,
sceglievo per secondo
i suoi abitanti.

E se un boccone grosso
mi rimaneva stretto
bevevo il sangue rosso
di chi mi dava il petto,
e solamente poscia
io mi cibavo lesto
del piede, della coscia,
di tutto il resto.

Ma un giorno vidi lei,
le labbra color miele
e gli occhi verso miei,
lo specchio d’un crudele,
d’un mostro con il ruolo
d’ingordo ed affamato,
stavolta, invece, solo
innamorato.

La pancia mi si chiuse,
si spense il mio appetito,
la musa delle muse
mi rese più impazzito,
così m’avvicinai,
la volli accarezzare,
per ossessione, ormai,
pure annusare.

E all’eccellente odore
di donna seducente
l’istinto mio, l’orrore,
si fece impertinente,
un desiderio forte
d’umano macellato
che solo la sua morte
m’avrebbe dato.

Perciò, debole orco
col torto nel cervello,
intollerante al porco
così come al vitello,
insomma all’animale,
sia cotto che al carpaccio,
per non recarle male
mi morsi un braccio.

E mentre la osservavo
di panico vestita,
dolente assaporavo
la carne delle dita,
morivo fra i lamenti,
sfamato e innamorato,
col cibo sotto i denti,
ma dissanguato.

(Alfio Grasso)

 

*

Tornando da Etnapolis dove prima
mai la morte avevo colto che ride
aggirarsi in così mosse visioni,
(saltellare da un carrello
ad un altro, scancellare facce preda
di orgasmini a poco prezzo,
acquattarsi agli angoli di compiacenti
specchi in camerini stretti come bare
verticali o, ancora, camuffarsi
nel bacio che disperato o no riempie
tempo e attesa su scale poco mobili)
volgo il pensiero all’imprevisto:
un mezzo pesante che sbanda e dritto
corre a macinarci ossa e lamiere.
Ma mi aggrappo alla carne della tua coscia,
e nel buio dell’abitacolo ti chiamo
vita! tirandoti via da vuoti cui
a volte, in segreto,
anche tu ti affacci, forse.

Così riconduco a casa
stanchi provati felici
i miei nervi.

(Antonio Lanza, da l’EstroVerso, 1 luglio 2014)

 

*

A scandire l’avvenire non
il ticchettio familiare
di un orologio ma
colpi di mitragliatrice
che scandagliano i sentimenti
più oscuri dell’animo.
Nel fumo delle bombe
puntano sul piatto la propria pelle:
la morte prende il posto
lasciato dal compagno.

L’equilibrio oscilla sulla fune,
ultimo avamposto di vita,
distante ormai
quanto la generazione
che ha voluto questa guerra.
Il rimorso pencola
nel vuoto.

(Paolo Lisi, da l’Assedio, ‘I Quaderni del Battello Ebbro’, 2008)

 

Fuoco

Divamparono improvvisi falò
vampe pure di demoni, stoppie
incendiate impaurirono belve
accecarono ansie immature.

Luce sottratta al vespro per la danza
il cerchio cede alla lusinga d’usignolo
vibrano vaghi steli di viburno.
Smarrite falene s’immolano
al tizzone estremo dell’ascesa.

A notte attendiamo l’aria fresca
d’alberi lunari a incenerire la paglia
noi spavaldi cavalieri del fuoco
nelle riserve bagnate dalle chiome.

Urliamo ansanti correndo a svegliare
i defunti a destare l’alba bendata
delle stagioni rurali.

Le tue mani possenti
rassicurano la rugiada
dell’adolescenza.

(Carmelo Panebianco)

 

Quannu s’ammazza a parola

Nun pipitài, dda vota.
M’agghiuttìi a parola.
Mancu pìu
vosi diri
e u puteva diri.

Cchi mala figura
cci fici!

Quannu s’ammazza a parola
s’ammazza u pinseri
e l’omu s’arridduci
ferra di sciara
e mazzuni di scogghiu.

QUANDO SI UCCIDE LA PAROLA – Non fiatai, quella volta . / Ho ingoiato la parola. / Neanche “pìu” ho voluto dire / e potevo dirlo. / Che magra figura / ho fatto! / Quando si uccide la parola / si uccide il pensiero / e l’uomo si riduce / fèrula di sciara / e ghiozzo di scoglio.

(Alfio Patti, da Jennuvinennu, Prova d’Autore)

 

Calipso

Un antro è la tua casa.
Ha molte stanze che s’aprono
su sacri giardini e su ruscelli
dalle rive erbose.
Tu tessi e canti il rito funebre
delle vedove degli eroi.

La noia è la tua casa.

La noia che ormai ti si apparecchia
in ogni ora del giorno e della notte.

Vorresti essere libera e non puoi.
La tua condanna è vivere in eterno.

E adesso senza lui.

Ulisse se ne è andato senza un bacio
e dalla zattera che gli hai donato,
neanche si è voltato a salutarti.

Ulisse che ami e non ti ama.
Ulisse che ha solo Itaca negli occhi.

Lui non ti è grato della libertà che gli hai donato.
Lui non sa che farsene delle tue labbra, delle tue ginocchia
del verde dei tuoi occhi di dea bella e immortale
della tua angoscia per la sua partenza.

Gli hai indicato le stelle nel cielo notturno
per non fargli smarrire la rotta
ma hai sperato che lui non partisse.

Hai intrecciato i capelli nei coralli.
Hai vestito di mare i tuoi occhi
Hai indossato l’abito della seduzione
Ma ha nulla è valso.

Ulisse è là che vira sul mare
senza nostalgia e pensa ad Itaca
mentre il vento gli va sulla faccia.

Stai pensando al suo arrivo ad Ogigia
a quando si è prostrato ai tuoi ginocchi
per chiederti aiuto. E ti commuovi al ricordo.
Sciocca dea che non cessi di essere donna.

Ulisse che ha rifiutato il dono dell’immortalità
che gli offrivi, purché restasse con te.
Quel dono che ora tu restituiresti volentieri agli dei,
pur di liberarti da questa angoscia eterna.

Quel dono che ti dispone alla noia
di giorni sempre uguali ed eterni
al tuo triste canto di donna abbandonata
tra sacri giardini e siepi profumate
di alloro e di mirto.

E a quell’infinito orizzonte
che hai davanti e che ti soffoca.

(Maria Rita Pennisi)

 

*

Impalpabile area sospesa,
un poco di luce
inafferrabile.

Inesistente la voce,
inesistenti le braccia della bilancia.

Da un capo all’altro
la tessitura smagliata,
si spezza l’immagine sullo specchio.

(Renato Pennisi)

 

[A primavera…]

A primavera
                   se vieni
già fiorito è il limone
Per le strade
                 ventate di profumi
come in giardini
                   per ciechi
Nebbiosi cieli
                   torbidi stagni
invernali torpori
                  specchianti
Nei campi verdi
                 di grano imberbe
rossi i papaveri
                acerbi
Tutto qui
è precoce
                e tutto muore
in fretta
ciò che è
               non è più
A primavera
               se vieni
le notti
                un abissarsi
di stelle
i giorni un polverio
                           di luce
a sera uno sprofondare
                                   di silenzi
Tutto qui corre
                       precipita
e tutto è fermo
                      in un flash
dʼeterno

(Anna Vasta)

 

*

Dove sono finite le stelle?
se ne sono andate
come uccelli migratori
verso altri spazi
pianeti, lune
vaghe di sospiri e nuovi sogni.

Un cielo opaco
ospita la Terra
popolosa di gente
che non rispetta più la vita
impegnata a riempire
sacchi di plastica
sporte per scorie e sciatterie.

Eppure lo sguardo ancora
riesce ad abbracciare questo cielo
ogni notte, in tutte le notti.
Lo sguardo dell’uomo nudo
della fanciulla vergine
e del bambino
che chiede al padre
di contare le stelle perdute.

(Lina Maria Ugolini, 6 settembre 2013)

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