«Cominciare a parlare / dalla A alla Z // Qui c’è pronto un punto / qui una virgola // Una vocale che congiunge / un avverbio che divide / Attenzione agli incroci di lettere maiuscole // Qui non ci sono posti / per buoni e cattivi // e se strappi il foglio / in più strappi la lingua.». Versi di Margherita Rimi scelti dal nuovo sorprendente libro Nomi di cosa-Nomi di persona, edito da Marsilio, vincitore della prima edizione del Premio nazionale “Alda Merini”. Un libro che, sin dalla foto in copertina (Letizia Battaglia, Palermo, quartiere Kalsa, 1979), si distingue per la bellezza brulicante della semplicità, per la complessità sciolta dentro il respiro di pagine lattescenti. Un libro con il quale, come scrive nel risvolto di copertina Amedeo Anelli, la poetessa agrigentina – medico e neuropsichiatra infantile, svolge da anni un’intensa attività di prima linea per la cura e la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, lavorando in particolare contro le violenze e gli abusi sui minori e a favore dei bambini portatori di handicap – «si conferma una delle voci meglio individuate del nostro panorama letterario. Con i suoi ritmi e la sua sintassi originale, crea una poesia tangibile, in cui la lingua siciliana, l’italiano, il francese, l’inglese, i linguaggi specialistici concorrono ad aumentare la dimensione esperienziale e di senso senza essere semplici “coloriture” linguistiche o contributi alla varietà fonica dei versi». Un libro valsole, recentemente, un riconoscimento l’Unicef Italia che ha così motivato: “con sue opere la Rimi ha saputo cogliere ‘negli occhi confusi del bambino trasparente’ la ricchezza dell’amore per tutti i bambini del mondo”.
Nel suo nuovo volume (Nomi di cosa – Nomi di persona) ancora una volta protagoniste le voci dei più piccoli. Emblematica la poesia “Giusto-Sbagliato” pensando alla quale domandiamo: la pedagogia può attingere alla poesia per sanare la reiterazione degli errori-orrori dell’adulto a scapito del bambino?
Il mio nuovo libro di poesia, Nomi di cosa – Nomi di persona, è uscito per Marsilio con risvolto di copertina di Amedeo Anelli, che qui colgo l’occasione di ringraziare. Il volume è costituito da diverse sezioni, alcune di queste trattano in particolare di temi che riguardano l’infanzia. È un’esigenza profonda per me, che svolgo il lavoro di neuropsichiatra infantile, portare nella poesia l’esperienza di tanti anni di lavoro con i bambini. Anche in questo libro parlo della condizione dell’infanzia, delle tante sfaccettature e storie che la caratterizzano, di tanti bambini, di quelli che ho conosciuto nel mio lavoro: bambini malati, che hanno subito abusi e maltrattamenti, o con deficit neuropsichici. Ho dato voce alla loro anima, alle loro storie, ai loro disegni, alle loro parole. Ho provato a mettermi nelle loro orecchie, nei loro occhi, nel loro corpo, dal loro punto di vista, nel loro modo di stare al mondo. Mi sembra fondamentale che la poesia punti a questa dimensione civile, di verità e di giustizia verso i bambini e l’infanzia: un atto di civiltà. Quanto al rapporto tra la poesia e la pedagogia, penso che la pedagogia possa imparare dalla poesia e viceversa. È nel dialogo dei saperi con le arti che ci si arricchisce, che si impara a vivere con una più profonda sensibilità e razionalità, che si uniscono più facilmente immaginazione e bellezza, creatività e tecnica. La poesia aiuta a capire il mondo, e dunque può essere di aiuto a tutte le scienze. Certo, ci sono degli aspetti prettamente tecnici, che caratterizzano le discipline scientifiche, dai quali non si può prescindere. Questi, però, è necessario che stiano in relazione con le altre dimensioni dell’essere umano, con la conoscenza della vita e del mondo, pena la disumanizzazione. La poesia e l’arte hanno il compito di ricordarcelo. Nella poesia citata, Giusto-Sbagliato, ho voluto stigmatizzare ironicamente la rigidità che assumono talvolta certi modi e comportamenti “pedagogici”, adottati dagli adulti nei confronti dei bambini. A volte succede che i genitori puniscano i bambini senza che questi ne capiscano la ragione. Ecco perché, nel finale della poesia, immagino un bambino che dice: «e quando mi tirano le orecchie /sono sempre quelle sbagliate».
E, ancora, considerato che – cito i suoi versi – “non c’è una scuola / per parlare con i grandi”, potremmo pensare di erigerla per mezzo della poesia?
I bambini parlano come sanno parlare, lo fanno in modo diretto e concreto, senza fronzoli, senza parole in più, e con un’invenzione sintattica piena di fantasia. Mentre gli adulti a volte si rivolgono ai bambini con un linguaggio che io definisco “miniaturizzato”: usano per esempio troppi diminutivi, che di solito i piccoli non usano, come a rimpicciolire le parole per adattarle al bambino. O, al contrario, lo fanno con un linguaggio che io chiamo “adultizzato”: utilizzano parole astratte e frasi dalla struttura sintattica complessa, come a porsi ad esempio e modello per il bambino. In queste modalità linguistiche di rivolgersi ai piccoli c’è sotteso un modo di pensare il bambino e l’infanzia da parte degli adulti. Nel primo caso, si tende a una diminutio esplicita: tutto è piccolo, così anche le parole in qualche modo traducono questo rimpicciolimento, come fossero adattate a qualcosa di ridotto, a una miniatura, a un piccolo uomo. Nel secondo caso, in fondo c’è un’altra diminutio implicita: cioè l’affermarsi dell’adulto come superiore rispetto al bambino, sollecitandolo ad un linguaggio che non è il suo. In questi due casi non ci si pone in una condizione di equilibrio con il bambino, ciò implicherebbe un ascolto più attento, una conoscenza e un’attenzione più sensibili, far passare il mondo attraverso l’infanzia, attraverso gli occhi dei bambini. Implicherebbe una visione del bambino nella sua complessità nella sua essenza di mente e corpo in evoluzione, in relazione con il mondo. In tutti e due gli esempi, dunque, si manifesta un pensiero di squalifica verso l’infanzia rispetto al mondo adulto. Qui colgo anche l’occasione per citare alcuni luoghi comuni del linguaggio che devalorizzano il bambino: – Piangi come un bambino -, – Ti comporti come un bambino -, – Hai paura? ma che sei un bambino -. Passando negli usi linguistici, questi influenzano l’apprendimento del mondo e le relazioni, la costruzione del pensiero. In questi versi mi sono messa nella “postazione” dei bambini e, insieme a loro (e alla mia infanzia), ho cercato di immaginare come essi potessero “pensarla”, quando i grandi parlano loro così. E la conclusione è stata che non esiste una “scuola”, e forse neanche una “grammatica”; e che, per parlare con i grandi, ci vuole una lingua autentica del sentimento, della cura e dell’intelligenza.
Assodato il desiderio conoscitivo, intimamente coniugato a quello meditativo, può raccontarci come nascono le sue poesie?
Le mie poesie nascono dalla vita stessa: dalla esperienza di realtà e di fantasia, di sentimento e di pensiero. A volte capita che la poesia abbia origine anche da una parola, una frase che aggancia e ricongiunge un ricordo, un ragionamento, affetti, qualcosa di profondo e vitale che sta dentro noi. Poi segue un lavoro di costruzione e ricerca, di ascolto, di studio, e di elaborazione. Non è sufficiente essere ispirati, “l’ispirazione” può avere la sua funzione, ma da sola non basta. E nella ricerca c’è la fatica della creazione, il bisogno di conoscenza e verità. E nella parola poetica una necessità etica e di bellezza. Si è come in un dialogo continuo con le parole, ma anche con il loro silenzio, tanto da divenire a volte una forma di “ossessione.
Per Andrea Zanzotto la poesia permane alla radice del mondo umano, sia nella filogenesi che nell’ontogenesi culturale, e ciò avviene anche per il semplice fatto che nella funzione poetica il linguaggio, prendendo “gioia” e “coscienza” del proprio stesso esistere, ridà tutta la sua storia, riassume tutte le sue potenzialità, riattiva e ripresenta in nuce tutte le altre sue funzioni e infine, se si vuole, esplicita la sua natura di fondamento strutturale dell’uomo. Qual è la sua opinione in proposito?
Per la mia formazione medico-scientifica e neuro-psichiatrica mi riesce difficile pensare che il linguaggio sia un Assoluto preesistente all’uomo. Il linguaggio, da un punto di vista ontogenetico, è una funzione cerebrale, la cui strutturazione ha implicato lunghi processi evolutivi insieme alle altre funzioni neuro-cognitive. A questi vanno aggiunti anche complessi processi antropologici e culturali. Così avviene anche nello sviluppo del bambino. Ecco perché mi riesce difficile pensare che tutto quello che è poesia possa pre-esistere al linguaggio. A tal proposito mi fa piacere ricordare una citazione dello psichiatra Aubin presente nel mio libro Nomi di cosa- Nomi di persona: «Vogliamo rimanere medici e psichiatri, disapprovando gli smarrimenti parafilosofici». La poesia, dunque, è una “lingua” che attinge dal linguaggio, e dalle sue parole che fa proprie, e le possiede a suo modo, le piega alla sua esperienza di vedere il mondo e di verità. La poesia potenzia la lingua e, di una funzione organica e fisiologica del linguaggio, ne fa una esperienza artistica attraverso la creazione poetica.
Riporterebbe un piccolo stralcio di testo nel quale è solita “rifugiarsi”?
Di solito trovo rifugio nel coraggio e nella forza della letteratura. Per quanto essa si prende cura dell’umanità, per quanta speranza porta nel vivere, per il suo insegnamento, per verità e bellezza. Ecco un esempio tratto da Il ritratto di Gogol: «Il maestro gli aveva detto più di una volta “Hai del talento; sarebbe un peccato se tu lo rovinassi […] Sta attento non diventare un pittore alla moda. Già adesso cominci a far gridare troppo il colore. Il tuo disegno non è rigoroso. Ci si lascia andare a dipingere quadretti alla moda, ritrattini per far soldi. Ma in questa maniera il talento, anziché svilupparsi, viene meno”».
La invito a scegliere una sua poesia per salutare i nostri lettori.
Scelgo una poesia tratta da La civiltà dei bambini. Undici poesie inedite, e una intervista, (Libreria Ticinum Editore, 2014), per stigmatizzare nella violenza verso i bambini, ogni crimine contro l’essere umano. Testo dedicato alle due bambine violentate e impiccate in un villaggio dell’ India. Il fatto è avvenuto nel 2014.
Nel villaggio dell’Uttar Pradesh
erano due le bambine
le scarpe di sughero
E l’albero era di mango
In fila due nuvole
in fila ci sono due corde
due gambe
due sorelle gemelle
Da una parte il bambino
dall’altra il fucile
in braccio alla madre
Nel villaggio dell’Uttar Pradesh
erano due i nomi
per tutti
due le bambine
E l’albero era di mango
(una versione ridotta di questa intervista è apparsa sul quotidiano
La Sicilia, in data 03.07.2016)