Maria Pia Quintavalla, “trovare quella fedeltà al dettato richiede un patto lungo una vita”.

Maria Pia Quintavalla è nata a Parma e vive a Milano. Ha pubblicato: Cantare semplice (Tam Tam Geiger 1984, nota L.Candiani), Lettere giovani (Campanotto, 1990, nota M. Cucchi), Il Cantare (Campanotto 1991, nota Nadia Campana), Le Moradas (Empiria, 1996, nota G.Majorino), Estranea (canzone) (Piero Manni, 2000, nota di Andrea Zanzotto), Corpus solum (Archivi del 900, 2002 nota di G.Neri), Album feriale (Archinto, 2005 nota di F.Loi), Selected poems, (Gradiva, nota di Andrea Zanzotto), China (Effigie, 2011), I Compianti (Effigie 2013 /2015 nota di B. Garavelli), Vitae (La vita felice, 2017, nota di Giuseppe Marchetti) Quinta vez (Stampa 2009, 2018, nota di Maurizio Cucchi). Ha curato o cura diverse antologie, numerosi eventi culturali come “Donne in poesia festival” o eventi formativi come i “Laboratori sulla lingua italiana scritta” per la facoltà di “Lettere” dell’Università degli studi di Milano. I suoi testi sono tradotti in diverse lingue: inglese, rumeno, serbo-croato, spagnolo, francese e tedesco. Sul testo poetico collabora a “Book City”, libera Università delle donne, Casa della Poesia Milano. A Parma, ha curato “Coppie del Novecento in poesia”, Biblioteca Palatina 2018.

Con “Quinta vez”, la Quintavalla ha vinto la Menzione Speciale del premio VII Premio Letterario “Paolo Prestigiacomo San Mauro Castelverde”, e ricordando questa motivazione che piace introdurre la nostra intervista: “Notevole per intelligenza emotiva e sapienza formale il libro di Maria Pia Quintavalla è incentrato sulle figure femminili della sua famiglia. Possiamo leggere il titolo, ‘Quinta vez’, come ‘Quinta volta’: un titolo altamente allusivo e di fatto enigmatico, espressione pugnace e magica per ostentare l’irrisolvibile rebus familiare. Perché l’autrice prova a stringere nel suo pugno la corda dolente delle relazioni familiari, soavi e terribili al tempo stesso. Ma quello che può fare, e lo fa con una certa maestria e finezza, è inventare una lingua emotiva in cui ha ostinatamente inoculato calcolati balzi e repentini spaesamenti spazio-temporali, ha infierito con gli scarti logici, le inversioni grammaticali, gli inciampi sintattici ed esistenziali, spingendo il pedale ora della sincerità ora della reticenza”.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Scrivo in una fase notturna della mente, anche fossero le nove del mattino. Iniziai sempre di notte, per illuminazione. O in stati notturni di lucide visioni e ascolto, nonostante il frastuono, spesso le polveri, della giornata. Un dettato notturno è significare, e prima ancora rinvenire, l’immagine sonora adatta alle immagini interne mute, ma attive, scalpitanti, in attesa: da sequenze di pensiero a pensiero in ritmo, battito e toni. Qui sta il significato che per me assume la poesia, una traduzione che costituisce la sua grammatica sul campo, misteriosamente parte della lingua in cui parlo e sono cresciuta. Con quella lingua straniera ci si sposta al di là della realtà sensibile ma ci si giova di un’intelligenza sensibile e del motus del cuore.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione? E, ancora, quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?

Difficile riassumere quali i migliori, o i più recenti, tra i poeti che mi hanno influenzato. Nel senso storico, derivato dalla formazione, devo tornare a una stagione in cui ho incontrato i lirici greci, e Lucrezio, galoppando nei secoli, fino all’incontro con il moderno in Europa (Rimbaud, Baudelaire, Céline, i futuristi russi, gli ispano americani, il lungo surrealismo che toccò, poco, la poesia italiana, per approdare al verso europeo di Rosselli, prima ancora di Montale e Sereni, di Zanzotto, alla stagione orfica degli anni settanta). Potrei ricordare un verso di César Vallejo sugli araldi neri, ma perché non citare Trakl, Hoederlin, Tomas, Celan, Cortazar, Bolano, e moltissimi fraterni maestri. Io mi nutro anche di letture dalla prosa e narrativa. Qui si va dalla russa a quella israeliana, alla sudamericana e quella semi inedita contemporanea: i nomi sono molti e rischio di fare un elenco non preferenziale. Essa pertiene alle nervature del pensiero nella lingua, sentimento del mondo, della natura: codici peraltro espressi in una serie di *donne in poesia* riscoperte, anche tramite il mio Festival, come direzione del mio albero della vita, l’essere nata donna. Ricordo in Nadia Campana, in Marta Fabiani, in Giovanna Sicari, voci femminili potenti non più vulgate, voci recenti (prima delle grandi madri) anche tra giovani lettori /lettrici. Presenze in un canone occidentale che è maschile /femminile contemporaneamente. Che è talmente originale in Emily Dickinson, ad esempio, quando scrisse che la Natura è una casa abitata dagli spettri, mentre l’Arte è una casa che cerca di essere abitata dagli spettri. La sua lettera al mondo, che a lei non scrisse mai. Col nome di spettri è già designato il lato volatile del desiderio, che si sposta e proviene da regioni sensibili per arrivare all’astrazione; questi brani che chiamiamo immagini sonore, sono i nostri suoni corporei e spirituali, di come traduciamo in suoni /sensi le aritmie del cosmo in cui siamo immersi, geroglifici che saranno narrazioni della psiche (non viceversa); il cammino, e la strada. Noi veniamo dettati dentro.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

Nella giornata distinguo il lavoro quotidiano di scrittura, come accendere il fuoco di un poiein sempre, cioè sedersi al tavolo, anche quando non si è in grado, per apparecchiarsi alla lettura, per scrivere, o fare riscrittura dei testi, o nella scrittura saggistica. Gli orari migliori sono la mattina, per organizzarsi, oppure le ore centrali del pomeriggio. Ma a dire il vero, il mio meglio è nelle ore notturne. Per essere ispirati, cioè spinti a scrivere da un’urgenza di dettatura, non c’è orario: essa sopraggiunge quando vuole, e va trascritta subito per adempiere quello che Dante chiama “così com’ei ditta dentro, annoto e vo’ significando.”. Ecco, trovare quella fedeltà al dettato, così come è, una cosa tosta e richiede un patto lungo una vita.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

In parte ho iniziato a parlarne anche nelle precedenti, credo che mille siano i modi. Forse un’intelligenza sensibile che si addensa, si reincarna tramite il nostro orecchio e voce, a rendere un provvisorio disegno, e nel suo nido di senso – suono, di cammino con lo spazio descritto. Nei miei testi, nomino la Poesia: “fiaccola concreta”, “superiorità superstite della strada sul cammino”, “il Mare, / la quintessenza dell’inchiostro”, o “stazioni quasi notte”, “esatta dizione del mondo”, i suoi soggetti, “sottomarini a noi stessi”, “eserciti bambini”, la sua azione che è “la sensazione del tempo che passava / nello spazio la pettinava e arava a lungo / quella incantevole, tenera e scintilla”.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Quando da sola compie il suo ultimo giro, o respiro, smette di muoversi, sta in piedi da sola. Si può mirarla, limarla, ma essa è già un suo essere, è libera. Può tornare ad essere acqua profonda, ab imis sprofondare, o empirea, innalzarsi nella relazione di abbraccio cosmico, che somiglia a volte a trasformare il gioco del mondo in una faccenda nativa, ma aperta a una piena esistenza.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Da “Stella variabile” a “Gli strumenti umani”, senza distinzione, amo le poesie di Vittorio Sereni, “esile mito”, tutte. Incredibilmente attuale, sempre. Una stesura dei testi presenti in Quinta vez, è rintracciabile in China; sono un tema di entrambi i libri: le vite plurali dentro una singola esistenza di madre (ora mitiche, ora terrene), evocando la vita prenatale o dopo la morte, nel tentativo di contatto con un’anima, dopo la sua dipartita, è nata, contestuale a China, la metamorifica storia di Quinta vez. Una biografia che si era fermata con la morte di lei, ma la sua scomparsa, soprattutto della sua voce, accende un campanello, dove si vada a cacciare Euridice.
C’è una strofa in China che lo annuncia, nel prologo, pag. 9, “Dove ti trovi oggi, madre, / sei nell’ineffabile dell’aria tra i campi, / vicino alla zolla misuri lo spazio, / fra un albero ribelle e un filare tranquillo,/ o resti qui tra noi diversi, divisi ancora / dalla tua grande, e atroce vita ?” dal vociare delle immagini, arriverà un sogno dove scrivo, in Quinta vez, “Era mia madre quella beatitudine di piccolo rosa e piccolo giallo che forava il bianco dell’aria…consentendoci di non essere più sole né fasciate, ma circonfuse, quasi battezzate insieme?”. Aria che respira, si anima e tenta una via, per relazionarsi a un diverso tempo, per essere orecchiata, e che è capace di fondare un battesimo insieme, è il pensiero della nascita: in luogo della dialettica dell’essere due, diverse, il corpo materno che era un prima e un poi, che oggi si fa varco per celebrare un’inedita nascita.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia dal recente libro.

 

Vi propongo uno stralcio di poesia dall’ultimo libro, Quinta vez (edizioni Stampa2009) del 2018, la sezione Mater, I, Nata dal riso: “Lei è più libera più umana, non conosce / guerre, né latitudini del nero / il novecento appena lo ha leccato, ma dopo / quando venne valicato / nel suo tam tam sinuoso si è raccolta.// Dorme o ticchetta i suoi messaggi, pensa / nella luce, e intanto in semicherchio / si accavalla ai corpi delle amiche / in cerchi di fumo e di parole / vola via leggera, si traduce.”.

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