Marilù Oliva, “strizza l’occhio al lettore che vuole guardare oltre le vicende”

Andrew Wyeth, Roasted Chestnuts, 1956 TOSI
Andrew Wyeth, Castagne arrosto

Marilù Oliva, scrittrice e saggista bolognese, scrive due libri, tra il 2014 e il 2015, straordinari. Non conosco la sua produzione precedente (Repetita, Perdisa Pop, 2009; ¡Tu la pagarás!, Elliot, 2010;  Fuego, Elliot, 2011; Mala Suerte, Elliot, 2012; Nessuna più [a cura di] Elliot, 2013), non sono perciò in grado di formulare un giudizio su un’avvenuta, o meno, evoluzione della sua scrittura: ma so che Le sultane e Lo zoo sono due romanzi in sé eccellenti che, nella loro diversità quanto a ispirazione, scenari, messaggi (che guaio: dei romanzi che contengono un messaggio!), mi paiono, sulla distanza, ora che è passato un po’ di tempo da quando li ho letti e che tanto se n’è detto (di bene), strettamente intrecciati, o, quanto meno, essi sembrano due opere inauguranti una specie di nuovo ciclo (i romanzi del 2010-12 sono incentrati sul personaggio di Elisa Guerra, la Guerrera, criminologa sui generis): che verrebbe facile chiamare dei Vinti, per via della scelta del milieu: popolare nel primo, addirittura freak nel secondo. Dal casermone di via Damasco, a Bologna, in cui tre donne anziane, malamente amiche, vivono le loro vite tristi, grigie, scontate (fino a che non si rompe la quiete iniziale, ovviamente), si giunge in un assolato Salento immaginario in cui i protagonisti iniziali, in scena come in una commedia borghese, sono invece dei potenti locali alle prese con un capriccio mostruoso, che li rende burattinai delle vite di sette freaks (il plurale per evocare meglio l’omonimo film cult di Tod Browning, 1932, a cui il romanzo è stato paragonato in molte recensioni).

Il primo fattore che lega le due storie è che in entrambe si indagano i rapporti di potere: ridotti e rappresentati al loro limite estremo, che è quando ci corrono la vita e la morte; quando c’entra il corpo, quella cosa ingombrante e avvilente che le sultane, Wilma, Mafalda, Nunzia, sopra i settanta, trascinano stancamente (il loro), ovvero massacrano, torturano (quello d’altri) per paura di dover rinunciare alla propria vita, per quanto miserevole o, ancora, il corpo strabiliante, bizzarro, dei freak (e non solo). Un secondo fattore è che entrambi i romanzi alludono ad altro, sono una potente strizzata d’occhio al lettore che abbia voglia di guardare oltre le vicende. Intanto i numeri: tre donne, sette freak, numeri perfetti, allegorici, mitologici. Le tre Parche, sono le sultane, come il narratore stesso suggerisce, ma anche almeno tre dei sette vizi capitali, se è vero che, in modo plateale, Nunzia rappresenta la gola, Mafalda l’avarizia e Wilma l’ira, poiché per prima sferra l’attacco a chi ha superato a più riprese un insopportabile limite di mancanza di rispetto nei suoi confronti. Ma, col tempo, l’elefantiaca Nunzia mostra di possedere ben più del vizio capitale della gola: è insieme lussuriosa (formula spesso desideri sessuali, per così dire, in absentia, vietandoseli al loro primo apparire), accidiosa (è afflitta da depressione, che è la forma dilagante dell’accidia, nel nostro mondo) e sottilmente invidiosa, nel senso più dantesco del termine, poiché guarda con curiosa libidine e malevolenza il vicinato, in ispecie gli stranieri. Lo zoo ha invece vizi e virtù rappresentati senza filtri e rimandi attraverso i personaggi nonostante quasi tutti mostrino una maschera: sia essa il corpo-disgrazia stravagante, sia il ruolo sociale indossato come un vestito e ormai irrinunciabile, si tratti, ancora, di identità incerte anagraficamente o sessualmente. Fortemente intrecciato ai due fattori comuni, è quello del corpo: esso è la declinazione del potere e del simbolo, e dunque del nostro immaginario occidentale, che è appunto occidentale, cioè destinato al tramonto. Mentre sulla scena irrompono sgraditi stranieri che ci rubano le case (come brontola Nunzia), o stranieri attrazione da circo, da viaggio ai confini del mondo (stando fermi), gli italiani mostrano tutti i segni della fatica del vivere: dal denaro ossessivamente onnipresente sul loro orizzonte, sia esso troppo o troppo poco, alla noia che il vizio, l’inettitudine, la soglia del proprio strapotere spostata sempre un po’ più in là, generano. È un mondo arrivato allo stremo delle energie, che ha spremuto via da sé ogni valore e si erge a divinità: al di là del bene e del male. E quando dio, o il sacro, per meglio dire, è tramontato sull’orizzonte umano, l’uomo si dà degli idoli o si mette al posto di dio, ritenendosi capace di dare la vita e la morte, di forgiare i corpi, di tagliarli, smembrarli, riottenendone un qualche prodotto: degli hamburger o una chimera, è quasi lo stesso.

Nessuno vince, propriamente, in questi romanzi: non le sultane, che vanno raccogliendo cocci, reali e metaforici, non i volgari potenti e padroni dello zoo, non gli stravaganti esseri seviziati, malmenati, alterati nella loro alterazione, non i penitenti, non i giustizieri. Regna il caos nel finale di ciascuno dei libri, il destino al quale l’occidente si sta consegnando, con la spavalderia di viaggiatori sul ponte di un titanic, senza produttivi piani alternativi, ma solo, forse, delle vie di fuga.

Su queste storie attraenti, coinvolgenti, curiose, gestite con calma e concentrazione, aleggia lo spirito di una scrittura fatata, leggera, precisa, dalle metafore straordinarie, dalle similitudini epiche. Una scrittura ordinata, classica, esatta, eppure piena di guizzi e di coraggio. E’ la scrittura che amo paragonare al cantoche si presenta come una voce in sé già bella, ma che tutti avvertono possedere delle riserve di energia, di estensione, di modulazione tutte da esprimere. Una promessa di vocalizzi, di mezzi toni, di variazioni di tonalità ancora da tirar fuori, questo è l’impasto che offre Marilù Oliva. Quanto è triste, invece, una voce anche bella, ma senza questo sipario, questo nascosto magazzino stipato di delizie! Così avviene nella scrittura: ci sono talora pagine belle, ma di cui si percepisce che non promettono nulla di più di quello che hanno dato. E lo scrittore non ve ne darà altre, né in quel libro, né in libri successivi: da ciò spesso si genera l’insoddisfazione di chi legge, l’aspettativa bruciata, l’assenza di sogno. La scrittura sa talvolta risultare esausta al modo di una voce bella, ma priva delle variazioni necessarie, delle pieghe che le danno spessore: in una parola, priva di promesse meritevoli della nostra attenzione: della nostra speranza. Marilù Oliva non solo non delude mai, ma spinge a fermarsi e a rileggere la densità di un paragone, la suggestione di un’immagine, la stravaganza dell’invenzione. La scrittrice domina l’impianto onnisciente o a focalizzazione interna, senza farsene un cruccio, sperimentando, pur nell’impiego adamantino delle tecniche, anche una certa libertà, al punto che sia le tipologie classiche del punto di vista, sia quelle che categorizzano le appartenenze ai diversi generi del romanzo, ne risultano scardinate, mescolate, senza esibizione di rimescolamenti e scardinamenti (che non usa più), mentre ricompare, oggi necessario più che mai, il messaggio, questo snobbatissimo oggetto letterario, scomparso da qualche decennio da tanta brutta (e codarda) letteratura patria, tranne che in pochissimi casi.

 

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