Matthias Ferrino, “la poesia chiama in causa il nucleo fondamentale del nostro essere”.

«Senti questo silenzio in ascolto./ Riporta un discorso che sai:/ nocciolo che non si lascia mai dire.». Leggendo “La sottrazione”, recentissimo e mirabile libro d’esordio di Matthias Ferrino, edito da “Stampa 2009”, irrompe, come un perfetto grimaldello, la voce di Emily Dickinson: «Per colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha causato./ Se lo riempi con altro, ancora di più spalancherà le fauci./ Non si chiude un abisso con l’aria.». Ferrino, giovane autore italo-francese, del quale abbiamo apprezzato e pubblicato, su l’EsttroVerso, lo scorso dicembre 2016, alcuni versi inediti, con sguardo sensibilissimo e desto («da dentro me a oltre la finestra») attraversa il «vuoto ubiquo», onnipresente, («fino a scalare/ le tacche dei cieli nella corrente/ ascensionale», fino a tracciare «a memoria un’urgente/ mappa del tesoro», fino a «Essere del mondo/ una prima pelle», fino alla «presenza nella vita»), fino all’obliterazione. Ferrino, scrive Maurizio Cucchi, nella prefazione, «realizza per scorci e per immagini, al tempo stesso solidissime e in attesa di mondano disfacimento, una singolare forma di potente meditazione lirica».

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Non ricordo con esattezza quando scrissi la prima poesia, il che avvenne certamente durante la mia prima adolescenza. Ricordo però molto bene il giorno in cui, per la prima volta, una poesia agì in me. Mancava qualche settimana ai miei diciassette anni e, per caso, tra gli scaffali di una biblioteca, mi trovai dinanzi al libro di un poeta a proposito del quale, a scuola, ci era stato detto che aveva scritto solo in giovanissima età e che poi aveva abbandonato l’Europa. Sicché, incuriosito, presi il libro in mano e lo aprii a caso. In cima alla pagina, lessi il titolo impresso in stampatello – Roman – e poi cominciai dal primo verso: “On n’est pas sérieux, quand on a dix-sept ans.” (“Non si è mai molto seri, a diciassette anni.” trad. Laura Mazza). Fu inspiegabile quel che accadde durante e dopo la lettura di quella poesia, là, in piedi nel silenzio della biblioteca. Un iniziazione che cambiò tutto, radicalmente.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi versi che non dovremmo mai dimenticare?

A mio avviso non dovremmo mai dimenticare tutte quelle esperienze poetiche che hanno avvertito l’esigenza d’instaurare un rapporto onesto e totale con l’esistere e con le parole. Siccome il dire della poesia riguarda quanto c’è di essenziale e di fondamentale nel rapporto tra noi, l’Altro, il mondo e il vivere, abbiamo bisogno di poeti affidabili e leali. “Non c’è niente di più criminale che un artista falso” disse un giorno il pittore Bram Van Velde all’amico Charles Juliet. Fatta questa premessa, nomino il poeta francese Yves Bonnefoy (1923-2016), perché in un mondo in cui il vivere comune e privato della persona assume sempre più inquietanti caratteri di virtualità nei rapporti con gli altri, con le cose e con i luoghi, confrontarsi con un’esperienza poetica assoluta, che abbia costantemente cercato la presenza autentica degli esseri e di un mondo possibile, qui e ora, nell’immediato, un “vero luogo” oltre le chimere concettuali e attraverso la prova della nostra finitudine, mi sembra oggi decisivo, oltre che urgente e di vitale importanza.   Tra i moltissimi versi che si potrebbero citare della sua opera, riporterò la strofa seguente, tratta da Les planche courbes (Le assi curve):

Passant, ce sont des mots. Mais plutôt que lire
Je veux que tu écoutes : cette frêle
Voix comme en ont les lettres que l’herbe mange.

(Passante, sono delle parole. Ma piuttosto che leggere / Voglio che tu ascolti: questa fragile / Voce come ne hanno le lettere che l’erba mangia.)

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Ecco il paragrafo iniziale del poème en prose di Rimbaud dal titolo Génie: “È lʼaffetto e il presente, poiché ha voluto la casa aperta all’inverno schiumoso e ai suoni dellʼestate, lui che ha purificato i cibi e le bevande, lui che è il fascino dei luoghi fuggitivi e la delizia sovrumana delle stazioni. È lʼaffetto e lʼavvenire, la forza e lʼamore che noi, in piedi fra le rabbie e gli affanni, vediamo passare in cieli di tempesta e bandiere dʼestasi.” (trad. Diana Grange Fiori).

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Il fatto che della poesia si possa trovare una moltitudine di definizioni, tutte giuste a loro modo benché tutte parziali, ci avverte di quanto essa sia, paradossalmente, refrattaria a farsi rinchiudere in parole, soprattutto quando si cerca di fissarne il movimento con delle formule. Sarò tautologico, ma credo che la migliore spiegazione di cosa sia la poesia potrebbe essere una poesia, da considerare però non solo in quanto testo – quindi mera struttura linguistica chiusa in se stessa – ma anche attraverso i molteplici modi di agire che la parola vincolata a un testo può originare in una vita, quando leggendo portiamo sulla pagina la totalità di noi stessi. Non potrei formulare una definizione, sarebbe impossibile farlo… Di una cosa però sono sicuro: la poesia chiama in causa il nucleo fondamentale del nostro essere.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Partendo da un punto di vista formale, ogni poesia è una storia a sé. A volte è un lavorìo che può durare mesi o anni, fatto di intuizioni, cancellature, riscritture, esplorazioni, silenzi, tagli, un proliferare sterminato di varianti, una vera e propria erranza; in questo caso, la poesia può dirsi conclusa – ammesso che sia possibile arrivare a una conclusione… – dopo che ogni segno, divenuto insostituibile e ineliminabile, ha trovato il suo posto e non può più essere spostato senza che crolli l’intera architettura del testo. Allora si è raggiunto un equilibrio che sancisce la fine della scrittura della poesia in questione. Eppure, benché questo lavoro di artigianato sia indispensabile, non per forza è indice di poesia. Deve scaturire dall’imporsi di un movimento originario e necessario che ci preceda. La poesia inizia a formarsi ben prima della fase di scrittura. A nostra insaputa e in zone lontane dalla nostra coscienza, le parole tramano in noi dei versi che forse, un giorno, qualora giungessero a maturazione, prenderanno voce e che noi trascriveremo con urgenza su di un foglio, magari senza quasi rendercene conto, come obbedendo a un ingiunzione straniera che anticipa ogni nostra volontà autoriale consapevole. Questo aspetto mi pare fondamentale per riconoscere la genuinità di una poesia. Ovvero quel suo prenderci in contropiede. Seguirà poi quel lavoro decisivo sulla forma come interpretazione dei movimenti soggiacenti alla poesia e al contempo come acquisizione di senso. Ma a monte è necessario quel movimento, quella spinta.  Facendo però una considerazione più generale, per quel che mi riguarda direi che una poesia può dirsi realmente compiuta quando è riuscita a fare essere di più, e noi stessi – in certi casi che si tratti di colui che la poesia la legge o di colui che la scrive è la stessa cosa – e il mondo, trasportandoci, per mezzo di un movimento vitale, al centro del vivere. Una poesia riuscita ha in serbo, per chi la accoglie così come per chi ne è accolto, la possibilità di fondare vita e senso. Quando questa possibilità si realizza, una poesia giunge a compimento.

La poesia ascolto o di essere necessita più di ascoltata?

Il dire della poesia è fondamentalmente una forma di ascolto. Ascolto in tutti i sensi, perciò con tutti i sensi e di tutti i sensi. Un ascolto mutuale anche; noi ascoltiamo una poesia che a sua volta ci ascolta. Non possiamo separare le due cose. La poesia che leggiamo legge noi stessi. Essendo anche un incontro, un’apertura all’alterità mediante l’ascolto, la poesia avviene proprio al limitare di quella frontiera tra noi e l’Altro, perciò attraverso quella linea di confine labile e porosa in cui noi entriamo nell’alterità e lei in noi. Un accogliere e un essere accolti insieme. Sicché la necessità da parte della poesia di essere ascoltata e quella, da parte nostra, dell’ascolto, corrispondono ed è probabile che siano la stessa cosa. La poesia è anche quella voce il cui dire include l’ascolto, anzi, corrisponde all’ascolto; è proprio attraverso l’ascolto (degli altri, di noi, delle loro parole, delle nostre, ma anche e soprattutto di ciò che non ha voce e ci affida la sua parola) che la poesia trova il suo dire.

Oggigiorno qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia,?

Ormai da qualche tempo, la poesia ha perso qualsiasi tipo di mandato, che sia esso sociale, politico o religioso. Non rappresenta più nessuna istituzione né alcuna istituzione più la rappresenta se non come spettacolo, surrogato, simulacro o prodotto culturale/commerciale – eccezione fatta per alcuni luoghi preziosi fatti da persone che ancora si battono per la diffusione della buona poesia; faccio riferimento ad alcuni editori, a qualche università, ma soprattutto a singoli individui innamorati della poesia che operano in suo favore nei più disparati settori, da quello educativo a quello culturale. Pertanto, dal punto di vista della società in cui si trova, la poesia – che oggi (come sempre), per quel che se ne dica, è ancora viva, dalle più vecchie fino alle nuovissime generazioni – è esente da qualsiasi incarico. Sicché preferirei non parlare in termini d’incarico, bensì in termini di possibilità. “La poesia è fondatrice di Essere” diceva Bonnefoy; apre una possibilità reale e concreta alla vita qui e ora, nella relazione tra noi e un luogo, così come tra noi e l’Altro. Questa è la possibilità che la poesia potrebbe darci qualora riuscissimo ad ascoltare, abitare, alimentare e metterci a servizio della sua parola. Prima di tutto individualmente, tenendo in considerazione che ciò avviene sempre all’interno di una comunità, perciò anche in relazione ad essa. Diciamo quindi che dovremmo essere noi ad avere un incarico nei confronti della poesia. Se già un numero crescente di lettori leggesse con la dovuta attenzione della buona poesia, sarebbe moltissimo. Quello che riceveremo da lei risponderà direttamente a ciò che le avremo dato.

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?

Quella cosa che chiamiamo poesia, per quanto attraverso il corso dei secoli sia nata e continuerà a nascere da uno stesso movimento trascendente alla storia, prende sempre voce all’interno di quelle contingenze storiche nelle quali viviamo, e non credo possa darsi al di fuori di quella cornice, a meno che non la si consideri unicamente come un artificioso genere di manierismo letterario. Anzi, direi che è necessario che la poesia, pur continuando a includere ogni tipo di registro linguistico e di linguaggio, si manifesti anche mediante la lingua più comune e corrente di una determinata comunità, quella di cui è fatta la nostra quotidianità e il nostro tempo, e quindi, in parte, anche di cui siamo fatti noi. Già solo questo elemento potrebbe essere indizio di una certa autenticità della poesia stessa.  Ciò non significa riproporre a tavolino calchi di forme linguistiche magari logore o degradate – come, ad esempio, possono essere quelle fabbricate dal linguaggio pubblicitario o quelle appartenenti a un certo idioletto mediatico – che invadono il nostro spazio comune e privato, e quindi ripetere, arbitrariamente (magari pure con discutibili intenzioni mimetico-letterarie… ), una lingua del tutto artefatta e artificiale, priva di possibilità di senso e di peso, senza volto, una parola che ci svuota di sostanza, che ci parla come se non dovessimo mai morire, attraverso messaggi del niente indirizzati a nessuno. Tutt’altro, la poesia ha in serbo la possibilità di fondare vita e luoghi nel nostro esistere più particolare, a partire proprio dagli elementi minimi del nostro esserci quotidiano e della sua lingua, ed è lì che si manifesta e agisce. Allora, quando la poesia avviene, la sua corrente attraversa anche le parole in apparenza più comuni e semplici, di cui peraltro siamo costituiti, ridando però loro nuova linfa e rivitalizzando così la lingua che media il nostro rapporto al mondo e, di conseguenza, la nostra relazione ad esso.

Per concludere, ti invito a scegliere tre poesie per salutare i nostri lettori.

Avevi detto che c’è sempre una possibilità,
anche con lo scarto del giorno, per fare
una cena nuova, fatta di soli avanzi da finire;
fondi di bottiglia e pietanze da scaldare.
Ti avrei vista sfornare un mondo intero
se avessi avuto treni da perdere. E allora
a tavola, in cucina, dalle finestre di una casa
possibile, avrei guardato i binari diventare
un niente, lontano, una striscia persa.
Ma ho acquistato il biglietto sbagliato
e ora quel niente si è fatto
infinito binario.

*

Il centro di un corpo è fuori da se stesso,
ovunque, là dove la pelle si dissolve.

Ogni albero contribuisce alla foresta
del nostro respiro, ed è una foresta.
La mano è la pietra, il vetro, la terra
bagnata sotto i piedi nudi dell’aria.

*

Senti questo silenzio in ascolto.
Riporta un discorso che sai:
nocciolo che non si lascia mai dire.
A ritroso, ogni parola
ha fatto ritorno alla matrice
per dissolversi nelle cose,
per riportarti alle cose,
le cose che ora parlano da sé.
Non è più necessario evocare:
è saturo lo spazio e sono
trasparenti i segni.

Questa solidità sotto i piedi
che non viene più a mancare,
la tenace tettoia del cielo,
entrambe congiunte nelle mani aperte
per i giochi delle dita
sdoppiate nell’ombra.

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 10.02.2019, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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