Mia Lecomte, “Lettere da dove”, poesia “lingua di sutura, in piccole tracce contigue”.

Mia Lecomte (Milano, 1966) è una poetessa e scrittrice italiana di origine francese. Sei raccolte poetiche pubblicate in Italia, le sue poesie tradotte in diverse lingue sono uscite all’estero in volumi monografici, antologici e riviste. È autrice di narrativa e di libri per l’infanzia. Traduttrice dal francese, svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della letteratura transnazionale italofona, a cui ha dedicato saggi e antologie. È ideatrice e membro della Compagnia delle poete e nel 2017, con studiosi e scrittori attivi tra Francia e Italia, ha fondato a Parigi l’agenzia letteraria transnazionale Linguafranca. La foto in copertina è di Dino Ignani

“occorre camminare/ ancora osare con cautela/ dietro la geografia”. Versi di Mia Lecomte, scelti da “Lettere da dove”, Interno Poesia (2002), per introdurre la nostra intervista.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo Lettere da dove?

Lettere da dove, ultima mia raccolta pubblicata con Interno Poesia a sei anni dalla precedente, Al museo delle relazioni interrotte, si compone di cinque sezioni: le vere e proprie lettere, il destinatario individuato malinconicamente come XYZ; “Agenda senza stagioni”, dodici ore senza direzione, appigliate ai luoghi alpini dell’Alta Engadina; “Nuda proprietà”, con testi dedicati all’abitare disabitato, in gran parte nati per La casa fuori, il penultimo spettacolo della Compagnia delle poete; “Motivetti”, un intervallo musicale scaturito dalle sonorità delle lingue del ricordo; e “Congedo”, per accompagnare con qualche garbo ciò che si è già ampiamente congedato. Non si può quindi parlare di scintilla, almeno intesa come sprazzo, chiarore che abbia aperto una direzione di scrittura. O di indagine. Non c’è che il buio di un ‘dove’ che non è mai sazio di chiedersi, senza risposta. Anche l’ultima mia raccolta pubblicata in traduzione francese, Là où tu as ton corps, già nel titolo risuonava di quel “dove”, l’avverbio smarrito a rendere ragione della presunta incarnazione.

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Lo può diventare davvero? A quale vita (mia o altrui) ci stiamo riferendo? In che direzione procederebbe la metamorfosi? Da dove, verso dove? Ancora quel ‘dove’, appunto, perché vita non è necessariamente ciò che pretende di esistere, o il linguaggio per dirlo. Nei versi finali di una poesia di Søren Ulrik Thomsen: «La radio ha preso una lontana stazione / dove un coro di bambini / in una lingua che dev’essere essere russo / legge qualcosa che dev’essere poesia / e potrebbe sembrare una traduzione / della lirica che ho sempre sognato di scrivere».

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

La poesia dice quello che lei solo sa dire, se è poesia, in tutta semplicità. Entra ed esce dal silenzio come l’ago nel tessuto. È lingua di sutura, in piccole tracce contigue. Lascerei l’invalicabile alle sfide del pensiero, le quali poco hanno a che vedere con la poesia. Che è «un attimo umile / quando qualcuno respira per noi» (Jan Skácel)

La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può risolvere “un abisso non in grado di stare”?

Mi sembra che i cosiddetti “poeti” dei nostri giorni siano tutt’altro che (pensosamente) soli: vengono continuamente spinti a partecipare, intervenire, ingaggiarsi, esprimersi… A essere parte, esserci. Onnipresenti, vigili, schierati. La poesia al cospetto di tutto questo non può niente, si ritira in buon ordine. Sa aspettare.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?

La forma? Un’acquasantiera per trattenere la verità del diluvio. Il suono è tutto lì raccolto, fermo. Riflette, in agguato.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia? 

 È stato quello di concedermi una via di fuga, la possibilità di sopravvivere a me stessa, malgrado tutto.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro Lettere da dove e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Mi aggancio alla tua citazione de “l’abisso non in grado di stare”. Il testo come ho detto è parte della sezione “Nuda proprietà” ed è stato scritto appunto per La casa fuori, penultimo spettacolo della Compagnia, costruito intorno alla simbologia della casa come luogo di transito, non-luogo che ci dis/appartiene. La casa perennemente in costruzione che partecipa di un’incessante decostruzione: quella della nostra vicenda privata e collettiva, esistenziale e di specie; lungo le piccole storie che compongono la Storia. Le scenografie componibili in cartone dell’artista venezuelano Cesare Oliva, la musica originale di Maurizio Stefanìa, consentono e interpretano tale costruzione/decostruzione, nel tempo e nello spazio, degli spazi domestici: all’esterno tutto rimane identico, “illuminato”, ma l’interno è perennemente da rifare, da ritentare altrove, altrimenti. Lo spettacolo ha viaggiato molto e ora nella sua versione internazionale, A home outside, ha inaugurato una formula che prevede la partecipazione di poetesse straniere, in altre lingue. A giugno, a Kolkata, insieme ad alcune compagne indiane, abbiamo coabitato con testi in italiano, inglese, hindi e bengali.

 

SGOMBERO

Il primo giorno hanno smontato il superfluo:
non luccicava neppure sul lato meno ruvido
l’hanno dovuto appoggiare

il secondo dedicato all’imballo:
riponevano necessità piccolissime
in scatole all’orizzonte
più e più lontane

il giorno che si dice terzo è soltanto molto vuoto
un abisso non in grado di stare

(intanto pare abbia avuto inizio
la sesta estinzione di massa)

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