Sto fuggendo dalla noia.
La guardo, volubilmente salda al suolo, sulla panca, per qualche istante accanto a me, stiracchiata su un tronco d’albero o d’uomo, sulla punta dell’erba, sulla lingua di quel bambino che ride per qualcosa di invisibile.
Davanti.
Dietro.
Ovunque, nell’ovunque.
Il sole è lì.
E la noia.
Non m’importa più di nulla se non della noia. Le sfuggo cercando ristoro in un movimento qualsiasi.
Il movimento del corpo.
Tuttavia non c’è niente da fare.
Non c’è rimedio alcuno.
La noia langue proprio lì, dove non è desiderata, lì, dove non è invocata.
E ancora e sempre qui, con me.
Dentro e fuori di me.
Anche in quest’istante apparentemente distratto, quest’istante che muta qualcosa, almeno su questo pezzo di carta, anche adesso la noia non cessa di tediarmi, con la sua lingua-non lingua, i suoi colori-non colori, la sua salute-malata, e quella voce, o meglio quell’insulso vocio che l’accompagna o trasporta, frammisto a passi e voci interrotte da una provenienza diversa.
Qualche parola la percepisco come una minuscola nuvola bianca nel cielo blu o grigio, che è lo stesso.
Noiosamente monocolore.
Una nuvoletta così.
Graziosa.
Al primo istante appare come un cambiamento o il risveglio dell’interesse.
Invece no.
I soliti discorsi noiosi del sabato pomeriggio, di ogni giorno, che scivolano rantolando da una bocca all’altra di qualcuno lì o là.
Sulle strade, nelle case, negli uffici, nelle toilette.
Nella testa.
La noia mi induce a scrivere di lei, della sua o della mia demotivazione, del proprio essere nulla, come me, come il tutto, come questa noiosa brezza che drappeggia i capelli strappandoli alla pettinatura di sempre per trapiantarli in una noia diversa, sul viso, attorno agli occhiali da sole, dietro i quali si rannicchia, una volta di più, la noia.
Me lo immagino, tutto questo.
Ha uno specchio interno la mia noia.
Mi domando se si annoino le persone che passano e passano, passano e vanno e guardano le altre persone che passano e vanno, vanno tutte nella noia, ci passano attraverso per raggiungere la noia.

Non ne posso più.

Sto pensando di cederle il passo, di non sfuggirle più.
– Prego, mia cara, dolce noia, prendimi, prendimi pure tutta, fino all’ultimo brandello di interesse, tagliami e cucimi come un vestito perfetto per te, per le tue misure sproporzionate e le tue membra informi. Non ho più voglia di scappare.
Ti abbandono.
Sì, ho deciso di abbandonarti qui, su questa panca di legno scrostato dai mutamenti del
tempo. Ti abbandono, adesso, cara noia, mia cara noia, o per meglio dire, per chiamarti
con il tuo nome proprio, mia cara ombra.
Ti lascio morire qui, su questa panca.
Come?
Che dici?
Parla più forte, per cortesia, la monotonia della tua voce è indecifrabile.
Ah, pensi sia inconcepibile?
Invece è addirittura attualizzabile. Vedi? Ora vado incontro al sole. Da adesso in poi non ti
potrò più vedere né sentire.
Credo che un po’ mi mancherai, mia cara noia, oh scusami, è l’abitudine, mia cara ombra.
Ogni tanto mi volterò indietro per salutarti.
Ma solo per qualche istante.
Per non dimenticarti.
Per non dimenticarmi.
Arrivederci.

 

 

ph Florence Henri Composition (1928)

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