“Nosferatu non esiste” di Andrea Accardi (anteprima)

Chi è Nosferatu nella ricostruzione immaginaria di Andrea? Lasciamo che si presenti lui con questi pochi versi: «mi aggrappo/ a ogni cosa con i denti/ ma lascio solo un’orma ridicola:/ due fori ciechi.». Ecco, Nosferatu siamo noi, Nosferatu è ognuno di noi nel disperato tentativo di lasciare un segno nel mondo, ma anche ognuno di noi in quanto abitato dalla paura di non esistere davvero e di essere soltanto desiderio di esistere. Se dunque Nosferatu ci contagia è perché siamo tutti afflitti dalla sua stessa bulimica brama di essere presenti al mondo e non spettri che lo attraversano.

(dalla Postfazione di Stefano Brugnolo)

Vivere è un guardarsi vivere, è osservare la propria casa dal di fuori mentre la si abita dal di dentro. In fondo è il sentimento di sentirsi postumo a se stessi, l’eternità che rappresenta Nosferatu, non è altro che questo, è vivere mentre ci si sente già post mortem, eppure è proprio la possibilità della morte la soglia che separa gli uomini, i mortali, da Nosferatu, dalla sua disperazione immortale che non può avere alcuna fine.

(dalla Postfazione di Francesco Filia)

 

I.

Io che m’illudevo di tenere tutto insieme
che le mie braccia arrivassero oltre questo
fuggi fuggi e chiudessero in tempo
ogni tipo di porta
ecco che invece mi ritrovo in mezzo
alle cose che finiscono
a questo continuo perdere pezzi
e lasciare andare, recidere
decidere
svegliarsi in viaggio con la schiena a pezzi
vedere paesaggi sognati da altri

(Albumi d’alba, riflessi, screzi.
La trasparenza dei Carpazi)

 

Resto immerso nel rumore del sangue,
caldo crepitio di globuli, sibilo
che unisce, difendo la casa
con barricate d’ossa, mi aggrappo
a ogni cosa con i denti
ma lascio solo un’orma ridicola:
due fori ciechi. Da piccolo
guardavo la luce cambiare
tra le persiane, come uno strappo
di tempo che nessuno ricuce.
Nel buio ora sento i topi brulicare
sobbalzare, divorare tutto.
Bisogna dare ali
a questi topi.

 

IV.

Dopo pranzo la città ci respinge
abbassa le serrande, si mostra
fatta di spigoli e anche, spaventosa
e bianca. Poi tutto affonda in un’acqua
un po’ mossa, le luci si accendono
prima del buio come candele
in una chiesa a mezzogiorno, cani
vigilano dietro i cancelli
mentre i padroni rimangono in casa.

Un cane abbaia. Qualcuno si allontana.

 

 

In una casa si rimane anche dopo
i crolli dal soffitto, in mezzo alle ombre
appese dei coperchi, o a guardare
fuori uno scempio di oleandri
e il modo in cui la luce di sera
sviene come un paziente
anemico sul letto. Niente
perdona la vecchiaia delle case
nessun esorcismo, nessuna croce
nemmeno una mano di vernice
ma ovunque fantasmi di finestre
ferite, e scosse di anchilosauro
uscito dal solco. È tutta finta
infantile permanenza
questa geologia del rimorso
desiderio andato fuori asse
che vuole tornare in ogni stanza
come se niente fosse.

L’eterno è un fondo di giacenza.
Senza morte non c’è speranza.

 

 

VI.

Capitava di lasciare posti e persone
e guardare indietro fino a vederli
svanire, di pensare l’impossibile
di una casa in assenza di me
che l’abitavo, di vedere gli altri
già dissolti
nell’ultima parte di ogni cosa.
Anche adesso che avanzo verso di te
per ogni metro di spazio sperperato
registro il punto esatto della perdita
del mio non essere più lì
mentre l’aria si riempie di una musica
d’archi, suonata per cosa, da chi

(Sto arrivando.
Ecco il castello, il sortilegio.
La pietà del tuo contagio)

 

 

Qui nulla finisce e nulla comincia
davvero, e allora mi porti una pietra
da metterci sopra, un coperchio
di nuvole addensate nel nero
il pensiero che tutto va perso
ma illeso, in qualche stanza lontana
in un condominio straniero

(Ti aspetto come si aspetta
l’inatteso, con cieca speranza
e un dolore sospeso)

 

 

VII.

Ho sognato che una nave arrivava da lontano
sbandando tra le secche e i tifoni
la stiva carica di casse di terra
il capitano stecchito e legato al timone.
La guardavamo dalle terrazze
come si guarda un temporale
scambiandoci pareri sul cibo e sul calcio.
Era come un problema che non ci riguarda
come il desiderio infelice di un altro.

 

 

Visitando l’antica prigione
sei entrato dalla porta in ferro
passando di traverso.
Penso che molti un tempo
hanno provato inutilmente
il passaggio inverso.
Mi chiedo quante volte un nostro gesto
senza saperlo è il contrario di un’altra vita.
E quante entrate occorrono
per immaginare finalmente l’uscita.

 

 

Montparnasse

Vivevamo in quel tempo
in un quartiere di Parigi
dentro un monolocale
stretto e basso
con tutti i comfort
ma come compressi
il bagno nella cucina
la cucina nel bagno.
Il monolocale a sua volta
infilato in un palazzo d’epoca
che vuol dire raffinato
très élégant
perché il passato è migliore
quasi sempre
(moquette, tappezzerie
ampio e flemmatico
l’ascensore
una brutta infiltrazione
nel muro).
La signora dagli ampi piumaggi
ci salutava a malapena
com’è giusto che faccia
un volatile tropicale
(la torre moderna supera i duecento
al cimitero c’è gente illustre
poeti cantanti filosofi
tutti morti
l’infiltrazione nel muro
sempre peggio).

Come il transatlantico
squarciato dal ghiaccio
così il nostro palazzo
cominciò a imbarcare
acqua gelida
secchiate di spilli
e tutto che viene trascinato via
divanetti art nouveau
quadri, olive
guinzagli e guanti
piante da salotto
cilindri, elmi
spade, stilografiche e cerniere
alla deriva, leggere, ci vanno
pure le piume.
Ci ripariamo nell’ascensore
che sale appena più veloce dell’acqua
primo, quarto, ottavo piano
l’attico, poi basta.
Guardiamo dall’alto
il livello che sale
la calma dei fondali.
«Faremo la fine dei topi»
mi hai detto sorridendo
e affondando.

 

 

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