Nostos, ritorno alla parola
Rubrica a cura di Luca Pizzolitto
C’è bisogno di richiamare alla consapevolezza di ognuno che la letteratura è e rimane, come ogni arte che sia tale, la luminosa, “splendente” illusione di chi , altrettanto consapevolmente, si sporge sul proprio abisso con tutta la sua intatta ingenuità nella precaria certezza che qualcosa resti, che una traccia rimanga del passaggio?
(…)
È quasi impossibile non percepire, di fronte ad ogni opera della scrittura, come una presenza muta, il fantasma del tempo sussurrare un incomprensibile alfabeto che contiene polvere e detriti di ciò che è stato e, insieme, il farsi di ciò che ancora non è. La scrittura avviene durante quell’ascolto, in una terra di nessuno dove i sensi della memoria riferiscono brani della storia, frammenti, scaglie come di intonaci residuali o reperti scampati al nulla.
(…)
La bellezza è l’istante nel suo avverarsi e rivelarsi. Ogni dopo è solo memoria e riconoscenza. C’è una bellezza ferita che appartiene al dolore di ognuno e del mondo, il tentativo impossibile di dare nome all’ombra, a tutto l’incandescente buio dell’esistere, alla sua notte abbagliante. Il lampo imprevedibile o la discrezione appartengono al dono che spesso si eclissa chissà dove, perduto. La bellezza è faticosa e difficile e arduo è farla sostare, per poco o per molto, sui rami delle righe, trattenerla quel tanto che basti, avvicinarla con i sensi, raccontarla agli occhi che la ascoltano.
da Francesco Scarabicchi, Sporgersi ingenui sull’abisso (Vydia Editore, 2018)
Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.
*
Ti guarderò da questa vita attesa,
da una fermata d’autobus, da un destino
che mi tiene lontano e sai che sono
più vicino che mai alla tua resa,
occhi che non si sporgono e non danno
luce a chi la chiede,
sguardi che vanno dove tutto è niente,
a una finestra d’angolo, ad un cielo
di musiche e di voci tutto intorno
*
Ci vorrà
tutto il tempo necessario
prima che possa anch’io
fare a meno di me
senza voltarmi,
andando,
per lasciare.
da Francesco Scarabicchi, Il prato bianco (Einaudi, 2018)
—
Francesco Scarabicchi, nativo di Ancona, trascorse l’infanzia fra Grottammare e Ortona; restò orfano del padre a soli 10 anni. Dopo il diploma magistrale, si iscrisse all’Università di Urbino, ma ben presto lasciò gli studi per un impiego in banca, che restò il suo lavoro per trent’anni. Determinante per la sua formazione fu l’incontro e la collaborazione con il poeta Franco Scataglini: con lui e con Gianni D’Elia e Massimo Raffaeli lavorò a una trasmissione radiofonica trasmessa dalla RAI delle Marche. Di carattere schivo e riservato, coltivò tuttavia amicizie con intellettuali e scrittori quali Giorgio Bertelli, Fabio Pusterla, Claudio Piersanti, Stefano Simoncelli, Ferruccio Benzoni, Paolo Lanaro.
La sua è definita una poesia realistica e le sue tematiche sono concentrate sui temi del ricordo, del tempo e della morte. Si è occupato da sempre di arti figurative. Una scelta delle sue Cronache d’arte 1974-2006 in L’attimo terrestre (Affinità elettive, Ancona 2006). Per Donzelli, nella collezione di poesia, ha pubblicato L’esperienza della neve (2003) e L’ora felice (2010). Per Liberilibri nel 2010 ha curato lo scritto del libro di Fabian Negrin La via dell’acqua. Ha ideato, diretto e coordinato con Francesca Di Giorgio, dal febbraio del 2002, la rivista periodica di scritture, immagini e voci “nostro lunedì”, dopo altre esperienze. Ha tradotto da Federico García Lorca e da Antonio Machado. Nel 2013 ha pubblicato Con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto (Liberilibri, Macerata 2013). Nel 2018 viene ripubblicato, da Einaudi, nella Collezione di poesia, Il prato bianco (già edito da L’Obliquo, 1987). Sempre per Einaudi, esce, la raccolta La figlia che non piange (2021). Muore ad Ancona, dove era ricoverato, il 22 aprile 2021.
La foto in copertina è di Vincenzo Cottinelli