Osservazione e sommovimenti tellurici nei versi di Luca Raul Martini

Dalla contesa dell’uomo con il tempo, da una richiesta di senso lanciata pur senza fidare in una risposta nasce il libro Tra due stazioni (Terra d’ulivi, 2018) di Luca Raul Martini. Una poesia di sommovimenti quasi impercettibili eppure di portata tellurica, un transito, dai tratti quotidiani e surreali al contempo, tra paesaggi a perdita d’occhio e periferie urbane, fabbriche e campi da gioco, ma anche spazi angusti o inabitati, stanze disadorne, corridoi di ospedali, scompartimenti di treni e metrò. Questi gli ambienti, gli scenari opachi in cui scorre la vita o incombe la fine, seguendo traiettorie irregolari da un punto d’osservazione a un altro, nel fermo di un’attesa o in bilico tra due stazioni: “Sto aspettando / la tua morte / come se fossi / nella sala d’attesa / di un dentista / scadente / […] / sono semplicemente / il bambino / seduto allo stadio / che dondola le gambe / nel vuoto / dopo che è finita / la partita. Mi capita poi / di accendere / la radio con prudenza / e quasi paura / per sentire / se c’è una frequenza / se sugli altri campi / si gioca ancora” (The Waiting). L’immagine in apparenza innocua del bambino, associata alla sensazione del vuoto sotto i piedi, rende con forza deflagrante la fragilità di cui diventa preda senza riparo l’uomo al cospetto della morte, il senso di straniamento che segue ogni perdita, con un sottofondo di incredulità e il cauto desiderio di continuare a esistere.
Ovunque trascorrono figure d’uomini per lo più sconfitti e sofferenti (e animali che gli somigliano, cani soprattutto e uccelli, stormi ciechi o freudiane tortore oniroidi), ognuno col suo andirivieni di ferite, offerte all’altro come un dono: “Dentro le ore della notte / io non ho altro estro / che portarti questo / piccolo poema / che perde sangue” (La maga di Vienna). Anche le atmosfere dell’amore mantengono tale agrore, esalano un aroma di non vissuto, tuttavia l’inconcluso, che giunge a precipitare la propria vita e l’altrui al rango di una visione cinematografica, si tinge di una vena sottile di sarcasmo, “E ora scompare il tuo profilo / sul filo della pioggia battente / e su lamiere e pietre rianimate / dai soffi d’acqua / come in un film americano / mi dici addio / il più usato dei saluti” (L’amore tardo).
La dizione ampia e in parte descrittiva della poesia di Martini, le frequenti nominazioni di luoghi e persone appartenenti al vissuto o all’esperienza intellettuale, formano una sorta di tessuto preparatorio di connessioni che conduca allo snodo, puntuale e pregnante, di versi d’impronta lapidaria e sapienziale, che inarcano il tono del testo e rivelano in modo inequivocabile la cifra del poeta. L’intero libro, suddiviso in tre sequenze e un’appendice, porta il crisma di un pensiero lontano da attitudini consolatorie, qui ribadito dalla ricorrenza del sottrattivo dis: “Ognuno di noi è nato / Per il disappunto / E la disperazione / Nutrito di fiabe / In costa al dissesto” (Gli animali/Sinfonietta).
Altro aspetto non trascurabile della weltanschauung di Martini è una decisa determinazione del sé come voce fuori dal coro, che confligge con la sensazione di spossessamento avvertita all’interno di una folla, idea speculare al contrasto luce/oscurità come appare nei versi dedicati a Ingeborg Bachmann, “L’uomo è padrone di sé solo / Nel buio/di giorno ritorna schiavo” (Le cose). Preludio di un motivo che culmina nella poesia Luna Park SF, in un autoritratto, né indulgente né sminuente, di singolare umanità, “mi elevo / nella felice disperazione / di respirare al contrario / Ed è evidente che io sono / proprietà di altri e mi alzo / tra i sedili del convoglio / fantasma / creato dal buio nel buio / e mi dondolo insuperbito / di sapere quanto posso / non esistere”.

L’attimo scorso
in sé racchiude
la planimetria
di una casa
disertata
spelonca di oggetti
fuori uso
e poi demolita
per lo spazio dispersa

Nell’aria che è vuoto
non si svolgono più
i gesti meticolosi
di chi l’abitava
i necrotici riti di
giorni interi
la scomparsa
è ripida
di fatto

L’attimo scorso
protegge le finestre
ai venti soggette
con sottili drappi neri
per questi vent’anni
a lungo immaginati
passati di notte
trascorsi ieri

*
Le persone educate
quando muoiono
dicono buonasera
all’infermiera

 

Lido cani

Noi ci eravamo stati
e quali stati avevamo attraversato
e spostati tornavamo poi
nei luoghi liquidi che non parevano
di parte alcuna e poi qualcuno ad arte
si ritrovava attratto nel fuoco fatuo
e poco a fuoco delle foto ricordo
soavi e fantasmatiche
sul sedile che oscilla di una gondola
all’improvviso vuota dell’acqua
da sempre e nei secoli imbarcata
e costeggiando palazzi
sovente bui e cariati
sbiaditi ma illuminati ora
dallo stento cerino di un flash
ora ci vedono solo gli occhi
come piccoli bottoni neri
di un cane

 

Tempo

Non puoi scrivere la parola
tempo
senza precauzioni. Mai
digitarla in ambienti chiusi
o angusti
come cabine telefoniche o toilette
di bar in periferia dove
da sotto la porta
corre luce ruggine

Sai bene che lì dietro
il tossico si inocula
la perfezione di una
screpolata luna

Neppure scrivila
la parola tempo in alta quota
su teleferiche celeri
o ali di Cessna
Non ci sono abbastanza vie
neanche per aria
o come le chiami tu
con tocco di cabala
rue
per trovare il giusto spazio
all’altro stato che ci contiene
inermi
nella vertigine
alla parola tempo
alla parola

 

Dog song

Ho deciso di
privarmi del cibo
di intendere
il linguaggio
del tuo corpo
sottile
pietrificato
di capire
che cosa vuol dire
morire di fame
di perfezione

Non mangio più
in pubblico
trovo le forze
pensando ai tuoi
piccoli seni
non baro più
cuocendo
cibi avvelenati
che scaldano
il corpo
non da quando
ho iniziato
ad amare il cenno
dalle tue dita
secche
di ghiaccio
e di punizione

Ritorno al ghiaccio
anch’io
insieme a te
mi privo di tutto
ti dico solo
che accetto un
biscotto
ma solo
dalle tue mani
tremante
dalle tue mani
solo se ha
il tuo sapore

 

L’estate

Da ultimo, ti furono compagni sacerdoti
di religioni incerte. Tecnici di pc apolidi
ottici con la carta del cielo in tasca
osteopati seganti da Lacan. Hai suonato
sciancato ai loro citofoni sceso
da sporchi taxi bianchi. A ognuno hai chiesto
qualcosa di più di verità e bellezza.
La pratica decente di sopravvivere

*
Di tutte le domande
che potevi farmi
Ne resta solo una
dolce e indecifrabile
In quale stagione siamo?

È l’estate della sventura,
ti dico, forse è davvero quella
del legno fenicio
e del cappello piumato
mai strusciato a terra.
Quella di Phlebas e di Cyrano

Ma tu perdona questo tremore
da bambino colto in fallo
mentre guardo fuori Milano
nel caso sia
filo di mare spento il sole
la consolazione
di quaderni neri
di segni rotte parole

*
Per me è l’estate sconosciuta
di filosofici ‘in memoriam’
Lacaniana/mente stanca
la lingua che si srotola
e a bordo della pista
di elefanti
nel vecchio circo arranca.
Né so orientarmi a sera sui tuoi
fonemi vuoti di fiato. Di significante
e di significato. A me ignoto
direi ‘tel quel’ quel motto
è il motivo per cui scendi lo scranno
abiurando e abdicando gettandoti
nudo all’affanno
di una meta incerta

 

Luna Park SF

Sono anni che dimentico
di iscrivermi all’istituto
Sigmund Freud. Neanche
ho mai studiato l’inconscio
alloggiato nelle stalle
di Augia della vita comune
Parlavo finto tedesco

Ma di notte o
di giorno la mia ignoranza
da nere correnti è percorsa
da soffi insistenti
di inutili e fatui furori
Mi spingono dritto nella folla
degli idioti degli etero diretti
iloti prede di catatonia
ed euforia fuori luogo

Allora leggo libri futili
su metro che corrono
ai confini del garbo di Vienna
in paludi popolate da thugs
Spesso senza consultare
l’orario semi accecato
dai lampi di scura luce
mi elevo
nella felice disperazione
di respirare al contrario
Ed è evidente che io sono
proprietà di altri e mi alzo
tra i sedili del convoglio
fantasma
creato dal buio nel buio
e mi dondolo insuperbito
di sapere quanto posso
non esistere

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