Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo
Ogni poeta avanza portando sulla bocca l’eco di altri poeti del passato e del presente, letti, riletti, custoditi nello scrigno della memoria, e qualcuno di loro gli sta accanto, perché è il più amato, colui che attende che le sue parole siano proiettate nel futuro attraverso nuovi germogli.
Colei che immaginiamo a fianco di Isabella è Cristina Campo con la sua altissima cifra stilistica di bellezza e la vampa della spiritualità, ma a lei si aggiungono altre angiole, anche loro benedette dalla Parola, che Isabella convoca e celebra (citandone alcuni versi) prima di ogni sezione in cui il libro è diviso.
Ne abbiamo risentito le voci nei testi che compongono I bimbi nuotano forte, ma come fossero mormorii che suggeriscono, o scintille in attesa di divenire un fuoco nuovo. E il fuoco di Isabella arde con quella luce di grazia che talvolta abbaglia. Sostenerla, spesso, non è facile: bisogna tenere conto anche del buio da cui prorompe, a cominciare dal male, dal dolore, dalla morte.
E la lezione è proprio quella che ci insegna il fuoco: che bisogna avere l’ardire di bruciare per farsi puri. Che, quando viene la notte, se lo spirito resta acceso, non si sprofonda nel nulla, che l’attesa fiduciosa reca sempre il bianco dell’alba, e che la morte stessa altro non è se non uno «squisito dissolvimento», come quello dei fiori: «lucenti / steli di gambette chiare, un plotone / di linfe giovanissime».
I nostri compagni saranno «gli angeli inauditi» e i santi che «vanno sorridendo nel celeste / dimenticandosi dello stare / e pensandosi appena abbozzati / a ipotesi d’angelo», loro che «ai grandi riparano il cuore/ dai colpi più duri» e «han cura dei bambini», più volte nominati nei versi di Isabella (a cominciare dal titolo), poiché vedono il lontano e l’invisibile, vestono il mondo di creature fiabesche, e la notte «insufflano i fiati soffici / come cigni piumati nei petti addormentati / sonoro il sonno di strumenti posati / a floreali fermezze di ossigenate fedeltà / in cui gioia incandescente s’attenua e riposa» (e vorrei sottolineare quanta sovrabbondanza di grazia sonora ci sia in quel succedersi di cinque effe, che imitano un respiro leggero in cui appena si dondola la levità di una piuma).
Ed è appunto alla «gioia incandescente» dei bambini che Isabella Bignozzi guarda come alla qualità spirituale per eccellenza, quella che Cristo amò più di ogni altra, la chiave segreta dell’interpretazione dell’esistere del Tutto, i bambini che, come scrive la Campo, «Hanno organi misteriosi di presagio e presentimento».
Si tratta di trasformare i dolori in «ali», in «velieri» che conducano ad altre dimensioni, che persuadano ad approdi celesti. Così che il versificare dell’autrice sembra un vibrare di ali affamate di alto e di luce.
Il punto di vista da cui viene osservato il reale è così attento e commosso da generare un fitto susseguirsi di metafore (così poco usate dai poeti contemporanei, insieme al come e all’ablativo assoluto, cosa che ebbe a sottolineare Cristina Campo: quale indice della «carenza di spirito analogico (…) della facoltà compiutamente poetica – profetica – di volgere la realtà in figura, vale a dire in destino») e un uso ardito (a volte enigmatico) dell’aggettivazione, che nasconde chissà quali percorsi della memoria, quali rielaborazioni delle proprie letture, e slanci dell’immaginazione e, soprattutto, dello spirito che medita sulla lingua per inventarla di nuovo.
Leggere Isabella Bignozzi significa, dunque, fare un’esperienza spirituale, dimenticando flagellazioni e lamentazioni e disperazioni esistenziali e il così diffuso nichilismo dei poeti contemporanei. Tutto in questi versi è pieno di Dio a cominciare dall’amore terreno, che è fecondità in cui si raccoglie quel miele che ci è stato promesso da sempre, come nel biblico Cantico dei cantici.
È infatti con l’interiore postura di questa incessante benedizione dell’Amata per l’Amato e viceversa che il lettore deve porsi in ascolto per penetrare la poesia dell’autrice, come un’ape che affondi fin nelle profondità nascoste nel calice.