Poesia e fulgore. Orgoglio, Solitudine, Arte: i tre monili di Nina Cassian.

Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo

 

            Nina Cassian mi guarda da una delle tante foto in bianco e nero che si possono trovare su internet, con il suo volto “strano, triangolare,/ questo pan di zucchero o questa/ polena degna di navi corsare, e capelli lunghi, lunari, sulla cresta”, il mento pronunciato, il naso gibboso; potrei dire che è brutto, se nei suoi tratti non si palesassero una determinazione audace, una disobbedienza devota alla dissipazione del senso comune, una natura sghemba, che mi inducono a credere che non non sto percorrendo con gli occhi una superficie ma una profondità.

Mi accingo, dunque, con la testa già scompigliata da tali premesse e promesse, a leggere le poesie di Nina al di fuori di ogni timone e stella polare, preparandomi ad un viaggio simile a quello di Dante (a cui lei orgogliosamente si paragona per via del naso) a bordo di un “vascel” dove ci imbarcheremo io, lei e la sua poesia, lasciato al dominio dei venti che vorranno alzarsi da ogni angolo di “nuovo” mondo, in un mare sempre in moto, che ha altra voce da quella che parla agli uomini della terra, ingannandoli.

La luce sarà spesso quella che sgorga dalla sera con “suoi misteri benevoli e blandi”, quando “i fiori impallidivano/ senza perdere del tutto il colore/ restando rosa con té e viola con latte, perdendo solo i gambi al buio,/ fluttuando, decapitati, a una certa altezza,/ che non c’era più, neppure lei”, quella luce che sta sulla soglia tra vista e visione; oppure quella notturna della luna che con i suoi scintillii inargenta i profili delle cose e costruisce scene sovrareali, inabissando il mondo diurno nel silenzio e suggerendo l’altro linguaggio. Per non parlare della dimensione onirica quando, la finestra aperta, tutto il fuori precipita dentro senza alcun nesso razionale: scoiattoli, foreste, neve e perfino la morte che però non sfiora nemmeno la dormiente, come nelle favole in cui per giorni, mesi anni, le principesse e certe fanciulle incoronate solo da un sovrappiù di bontà e bellezza attendono giunga un sovratempo dì amore a destarle.

E tuttavia anche quello del sogno può essere un’impalcatura iconica fatale: se, infatti solo in esso è possibile immaginare Dio come un amante: «tu ed io/ passionali come più non si può/ noi ci amavamo come la prima coppia che si amò// ed eravamo belli e selvaggi e nudi», l’ultimo verso che recita «ed eravamo morti tutti e due» ci pone di fronte all’impossibilità di una vera unione fra i due, ché perfino nel linguaggio dell’Es  umano e divino sono destinati a soccombere l’uno nell’altro.

E poi, non appena ci si abitua a queste illusioni ottiche, compreso il numero di magia del fiume e della luna che la tagliano in due e la poeta afferra la testa per cullarla, arriva l’ordine perentorio di Nina: «Leggi il mio libro e inebriati/ dell’aroma della mia carne”». Come si fa a non obbedirle?  Mi metto in cerca del corpo e m’imbatto in alcuni testi imbrattati “letteralmente” di sangue. Quello innamorato: rosso sangue, diurno, notturno […] Il sangue schiavo dell’uno»; che «s’innalza libero nel sangue dell’altro»; il filo di sangue che cola dalle labbra, quando quell’amore muore; i rivoli rossi che sgorgano dalla fronte colpita da amanti «pigri, astuti e armati di spade minuscole»; quello sacro grondante dal corpo di Gesù crocifisso, il sangue schizzato «di una gallina con la testa mozza» che sporca ogni cosa, strada, tavolo, mani; oppure, d’improvviso, vedo il corpo di Nina ricoprirsi di piume, peli, squame, creste, colori e trasformarsi come in una favola ovidiana in uccello, gallina, serpente, cervo, salamandra, scimmia, all’interno di una perigliosa avventura di forme, ad imitazione anche dell’illogica fantasia divina (non dissimile da quella letteraria) che  «confonde il «nostro cartesianesimo»; o ancora, per stargli accanto, debbo costringermi a posizioni assai scomode, come, per esempio, stare sospesa «su un tetto obliquo di lamiera verde», sostenuta solo dal cuneo del sole, e leggere in questo modo le sette lettere che Nina scrive all’amato solo per dirgli sette volte che non l’ama.

E poi mi trafigge come un dardo inatteso un pensiero: ma di cosa parla davvero Nina? Possibile che metta in scena tutto questo variopinto spettacolo, queste deliranti bizzarrie solo per gioco? E quanto serio è questo gioco per farla urlare, piangere, morire e risorgere, sentire i chiodi dentro la carne, sorridere e consumarsi? Capisco: si tratta di quella cosa abnorme che è la letteratura, dove: «Oh, giocare alla Genesi, che spasso», magari inventando «una mela azzurra,/ una tigre verde -/ quanto basta per scriver libri di tutt’altro genere, / libri con cieli rossi, / giungle viola, perché qui come altrove tutto si rimescola»; nel suo territorio bizzarro le ferite diventano “elastiche” e cercano la guarigione dentro la misura dei versi, intanto che la bella e musicale gabbia di vocali e consonanti  intrappolano ogni cosa in una mappa nuova. Perfino la solitudine, quando si scrive, appare uno   “spazio dorato”, dove regna «un tacito accordo» tra le matite «e gli alberi là fuori», mentre bolle dentro, come un té color dell’ambra, l’anima desiderosa di percorrere, sia pure contorcendosi, aggranchendosi, deformandosi «come un filo di lana sotto la fiamma» «i tanto invocati gradi della perfezione», cercando senza sosta «ghirlande di significato».

La lotta è nientemeno con la morte, anche con quella che già stata, ma la meta è bellissima, e quando la scrittrice potrà offire le sue carte: «Sarà un tempo sereno, un tempo da inni./ Con un sol gesto l’aria fenderò,/ prometterò solo parole immacolate […] Le vocali assumeranno, naturali, la loro gloriosa aureola./ E verrà il tempo sonoro e scintillante, / un tempo solenne e puro, un tempo da inni/ e verrà un giorno il tempo! Oh se verrà!». Il pensiero va, per contrapposizione di esiti, alla poesia di Alejandra Pizarnik, la smarrita nell’infanzia perduta e nel terrore della morte che fissa continuamente il punto del cominciamento della corruzione della lingua, mentre Nina è avida, vuole «bere e mangiare/ tutto insieme, speranze e piacere/ con la panna dalla brocca profonda/ e con la polenta bollente». Alejandra è Alice esiliata per sempre dal giardino delle meraviglie, perciò non potrà affrontare lo scherno del tempo e sceglierà la tragedia; Nina ne evade con la sua magnifica ironia; nonostante tutto, continua ad inebriarsi dell’alcol verde dello spirito, e, quando invecchia, non si lascia deprimere dalla diversa immagine che lo specchio le rimanda, grida piuttosto:  «festeggiamo/ il pattume, i fiammiferi inservibili,/ le strade soffocate dall’odio confuso/ -anche se la ragazza è una megera ormai-/ stupiamoci, sgoliamoci ai grandiosi/ festeggiamenti della molteplice decrepitudine:/ un po’ come cadere dall’autunno/ nell’inverno». Lei è sicura di una cosa: «Pur se verrò sepolta/ in una terra aliena:/ risorgerò un giorno/ nella lingua romena».

Il piglio combattivo l’accomuna, piuttosto a Marina Cvetaeva, come lei «vibratile, sensibile, pulsatile», e sopratttutto con «la clitoride in gola».  Lei cita però direttamente nelle sue poesie Dante e Ovidio, non solo per la somiglianza dei loro nasi, ma perché come lei sono dei visionari, seppure in modo diverso, e hanno sperimentato l’esperienza dell’esilio per motivi politici. Virgilio le piace perché ha individuato il segreto malvagio dell’ingranaggio della storia a cui oppone la bellezza degli elementi naturali e l’eroismo della pietas. Ha divorato i  loro libri come mille altri, specie quelli in lingua romena, alcuni li ha pure tradotti, ma il suo stile è inconfondibile, come quello di ogni grande poeta che si distingue, come scrive Giorgio Manganelli  (La letteratura come menzogna,  Ed. Adelphi), nel linguaggio «che gli compete, che lo ha scelto, l’unico in cui gli sia tollerabile esistere; unica condizione stabile e reale, sebbene affatto irreale e impermanente, un’unica esistenza».

A questo punto, credo di dovermi scusare se ho dato voce a delle riflessioni usando spesso il pronome “io”, però a mia scusante dico che mi sono sentita autorizzata a farlo dalla stessa Nina Cassian, che, in barba a tanti inutili diktat dei critici, ha scritto una poesia in cui ripete cinque volte il pronome “io” e che si apre con questi versi «Io sono io./ Sono personale,/ soggettiva, intima, singolare,/ confessionale». Insomma, da quando ho incontrato Nina, mi porto sempre il suo libro a letto, lasciandolo sopra la coperta, in modo da poterlo facilmente raggiungere, quando la sera, non riuscendo a prendere sonno, leggo e rileggo le sue poesie. L’altro giorno è capitato che, essendosi nascosto non so come sotto il cuscino di fianco al mio, nel rifare il letto, l’abbia fatto precipitare a terra. Sul fatto ho scritto una poesia a lei dedicata:

 

Il libro della Cassian
ha fatto un volo giù dal letto
(non me n’ero accorta)
per finire sul pavimento
con un tonfo esagerato,
le ali (pagine 90 e 91)
tutte spiegazzate:
una “donna miraculata”,
cioè miracolata –
dice il titolo della poesia
così adatto alla situazione.
Immagino Nina
che mi rimprovera:
“C’è modo e modo di sparire”,
ma non tra le tue lenzuola.

 

Intanto questo testo (un ironico divertissement)  mi dà agio di citare il titolo del libro dell’Adelphi: C’è modo e modo di sparire che raccoglie più di cento poesie della Cassian e di parlare di una  poesia della stessa  -quella a pag. 90 e 91- che s’intitola, appunto, “Donna miracolata”, in cui lo sberleffo diventa irresistibile; all’amante che l’ha distrutta, lei grida in faccia la sua libertà: non più fissità di sguardo, né «mani cenciose sugli oggetti», né quell’andatura da cagna servile propria dell’innamorata; solo una sorta di tatuaggio sulle tempie crudelmente impresso, ma che riluce come un nembo. Quanta ambiguità! La leggi e la rileggi e puoi immaginare un racconto d’abbandono amoroso, oppure  una scena truce di assassinio come in un giallo. Sarà che il vero miracolo è quello della morte (anche quella del linguaggio comune?) che trasforma ognuno in una carogna che riluce nell’oscurità? E quel tatuaggio/sigillo sulle tempie non sarà quello della poesia che comunque cingerà eternamente il capo della poeta?

Mi piace molto congedarla così Nina, immaginandola con la testa (quella che lei recupera e culla, dopo essere stata tagliata in due come scrive in altri versi già citati) tutta rilucente, intanto che «Nell’icona d’argento i santi/ si rammaricano». 

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