Poetry Vicenza 2016, incontro con Gëzim Hajdari e Kim Kwang-Kyu

Beautiful young woman in brown mysterious venetian mask

Le musiche di ouverture di Dino Rubino al pianoforte e di Lorenzo Conte al contrabbasso attutiscono il ticchettio della pioggia che non ha intimorito il pubblico giunto numeroso nelle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari. L’appuntamento poetico-musicale del quale scriviamo è doppio: dall’Albania alla Corea. “Poeti lontani, Gezim Hajdari e Kim Kwang-Kyu, ma accomunati dalla lotta per vivere nella propria patria o addirittura cercare una patria” esordisce Marco Fazzini, direttore artistico della rassegna Poetry Vicenza 2016, docente di letteratura inglese e postcoloniale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, traduttore e poeta.

GËZIM HAJDARI

L’autore albanese che stiamo per conoscere, figlio di ex proprietari terrieri i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha, è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano di Lushnje, partiti di opposizione. Molto impegnato anche nel giornalismo, Gëzim Hajdari non ha esitato a denunciare pubblicamente crimini e abusi della vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha, e dal 1992 è esule in Italia. Bilingue, scrive in albanese e in italiano. In Albania la sua produzione poetica viene ignorata volutamente dalla cultura di potere. Per i suoi meriti letterari dal 2001 è cittadino onorario della città di Frosinone. Marica Rampazzo e Michele Silvestrin (verranno elogiati dallo stesso Hajdari), le voci recitanti che si avvicendano nella coinvolgente lettura di alcune strofe tratte da “Il poema dell’esilio”, una sorta di storia culturale e folklorica dell’Albania, canto di dolore dei soldati, in cui Hajdari è traduttore di se stesso. “Ho contribuito al crollo della dittatura albanese /e alla ricostruzione democratica della patria, / perché aspiravo alla libertà e alla bellezza, ma vincitrice/ è stata la nomenclatura di ieri, macchiata di sangue! e crimini di stato/ È per questo che sono in esilio, amici miei.. Quest’ultimo verso è il leitmotiv ripetuto alla fine di ogni strofa (“È per questo che scompaio nell’esilio, amici miei… È per questo che abito l’esilio, amici miei… È per questo che sono l’amante dell’esilio, amici miei… È per questo che rinasco in esilio, amici miei… È per questo annuncio l’esilio, amici miei…).
“È come se partecipassi al mio funerale – esordisce ironicamente Gëzim Hajdari – questa presentazione ha un sapore diverso, siamo in una delle più grandi rassegne italiane ed europee… in uno spazio davvero suggestivo… ringrazio di cuore tutti e soprattutto voi presenti”. L’autore di corporatura esile, non molto alto con un viso scarno incorniciato dalla barba incanutita, legge sfogliando velocemente le pagine di un quaderno inframmezzato da segnalibri gialli che girate avanti-indietro e indietro-avanti lo fanno sembrare una piccola fisarmonica. Accompagnato dalle musiche di Conte e Rubino, valenti interpreti e fautori di una sorprendente e sinergica contaminazione fra le arti, il protagonista legge versi da “Canto il mio corpo presente”:” .. e ogni giorno impazzisco un po’…” e tra sangue, esili, migrazioni, abbandoni e denunce, ci parla anche di vita, amore e di ginestre, acacie, siliquastri. Il pubblico ascolta profondamente emozionato, indotto a riflettere, quasi a farsi male per stare meglio.
Gëzim Hajdari, con il sorriso di chi la vita l’ha davvero conosciuta nel profondo, conclude il reading dicendo: “Scrivo in italiano e mi tormento in albanese”. L’ovazione del pubblico rende il dovuto omaggio a questa voce così incisiva nel panorama mondiale.

Canto il mio corpo presente

Sogno spesso di tornare sulla collina dei siliquastri
e di vivere accanto a te,
ben venga la povertà,
ma soltanto accanto a te.
Sono trascorsi anni da quando mi hanno costretto ad andare via.
Che fai? Che pensi? Ci salveremo in questa vita?
È il duro destino dei poeti,
ieri per la dittatura eravamo pericolosi,
oggi per la libertà siamo inutili.

Ah, se avessi amato una donna del villaggio,
non avrei sofferto così tanto nelle città che uccidono,
dove ogni secondo mi devo difendere.

Scrivimi, se hai sentito il canto del cuculo
sulla ginestra fiorita.

Gëzim Hajdari

KIM KWANG-KYU

Dopo la presentazione del secondo protagonista della serata, Kim Kwang-Kyu, da parte di Marco Fazzini, spetta alla traduttrice Vincenza D’Urso introdurre il poeta coreano. Nato a Seoul nel 1941, laureatosi in lingua e letteratura tedesca presso la Seoul National University, partecipò alla rivoluzione di aprile che, dopo il massacro del 19 aprile 1960, portò alla caduta del presidente Syngman Rhee. Kim ha scoperto la propensione per la scrittura durante la frequenza della scuola media e superiore, quando le sue opere vennero pubblicate su riviste scolastiche, ma si è avvicinato alla poesia relativamente tardi traducendo in lingua coreana opere di Heine, Brecht ed Eich. Nel 1979 diede alle stampa la prima silloge poetica: “L’ultimo sogno che ci bagnò” che gli valse il premio buddhista per la letteratura. Seguirono altri riconoscimenti molto prestigiosi e la pubblicazione di nove raccolte poetiche fra il 1983 e il 2015, anno in cui è uscita la sua ultima opera intitolata “Il giorno in cui la mano destra fa male” per celebrare i quarant’anni di attività poetica. Moltissimi i suoi readings in tutto il mondo (Cina, Colombia, Spagna…). I suoi versi sono stati tradotti in dieci lingue e a cura della professoressa Vincenza D’Urso è imminente la traduzione in lingua italiana di una selezione antologica. L’inizio del reading è ancora una volta affidato agli attori Marica Rampazzo e Michele Silvestrin che con grande professionalità leggono “Una foglia”: “Quando la vallata del monte K’ȕnak/ era ridente nel suo verde delicato/ al tempo in cui gli alberi erano fitti di nuovi germogli/ io che passai di lì/ non me ne accorsi”. “La patria nelle mie poesie è terra di divisioni, dittature, lotte, solitudini… è divisa non solo da nord a sud ma anche da est a ovest… La mia è stata definita poesia del quotidiano, perché con un linguaggio semplice ma efficace cattura la verità dimenticata dietro le esperienze di tutti i giorni” legge la prof. D’Urso a nome del protagonista e ancora: “Voi che amate la musica e la poesia, vi ringrazio, mai mi è capitato di recitare i miei versi in un luogo così bello e indimenticabile”. Dopo un sonoro “buonasera” scandito da Kim, inizia la doppia lettura di “Monte Spirito”. Poeta e traduttrice formano un inseparabile duo sinergico: dalla lettura del poeta coreano che – a chi come la sottoscritta suona monotona e incomprensibile – si passa al rincuorante riconoscimento di fonemi-sillabe-parole del nostro noto idioma. Si continua con poesie tratte da altre sillogi: “Il paese delle nebbie” (“Chi non ascolta/ non riesce a vivere/ ha come le lepri sempre orecchie bianche”). “Est-Ovest Nord-Sud ” (“e nessun filo spinato.”). “Epitaffio” (“dove troveranno i poeti posto per le loro tombe?”). Anche Kim Kwang-Kyu ci parla di pioppi, aceri, azalee e forsizie – forse metafora della vita che sempre rinasce soprattutto in “Canto di primavera”. Seguono versi tratti da “Sogno nero”, “Crociata” e “Ricordo di Sicilia”: “Naxos, Taormina, Mar Jonio/ ,non scatto neanche una foto/ osservo soltanto…/ Ecco il ricordo di un viaggio in Sicilia/ di cui non resta alcuna traccia”. “Avevo preparato fino a qui, ma visto che resta ancora un po’ di tempo vi faccio dono di un’altra poesia” dice l’autore per bocca della traduttrice tra gli applausi del pubblico che pare non sentire la stanchezza né la pioggia. Legge “Piccoli uomini”: “Più vecchi diventano gli uomini/ più rimpiccioliscono…/ Si sono rimpiccioliti come i passeri/ che dal castello vanno giù verso le grondaie…/ Di loro resta solo nome, cognome…/ Non potrebbero diventare più piccoli di così/ Sono piccoli uomini… Grazie (proferito da Kim). I virtuosismi di Rubino al pianoforte e la maestria di Conte nel pizzicare le corde del contrabbasso sono il degno finale di un pomeriggio indimenticabile. Scroscio di applausi meritatissimi per autori, musici, attori, traduttrice che presentandoci il pensiero di poeti lontani, ci invitano a riflettere su insopprimibili valori di pace e libertà non da tutti goduti.

Monte Spirito

Nel paese della mia fanciullezza c’era un monte misterioso. Lo
chiamavano Monte Spirito. Nessuno l’aveva mai scalato.

Di giorno Monte Spirito era invisibile.
Avvolto fino a metà dal fitta nebbia, le nuvole ne ricoprivano la
vetta, e noi
potevamo solo immaginare vagamente dove fosse.

Anche di notte Monte Spirito era invisibile.
Nel limpido cielo notturno, al chiarore di luna come sotto la luce
delle stelle,
immaginavamo la sua sagoma.
Ma nessuno sapeva quanto fosse alta o che forma avesse.

Un giorno- il ricordo del monte non aveva mai lasciato il mio
cuore- presi un bus e tornai al villaggio. Strano!Monte Spirito
era svanito, e persino quando chiesi agli sconosciuti abitanti del
villaggio, giurarono che lì non c’erano mai stato nessun monte.

Kim Kwang-Kyu
(Traduzione di Vincenza D’Urso)

 

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