Prigionieri della terra di mezzo. Caspar David Friedrich e Giacomo Leopardi

Il Tramonto, Caspar David Friedrich del 1830-1835
Il Tramonto, Caspar David Friedrich del 1830-1835

rubrica lo scrutatore d’anime

 

L’anima malinconica di Caspar David Friedrich

La copertina del mio ultimo libro, Le eclissi dell’anima, è occupata per intero da un gioiello della pittura romantica tedesca: Il tramonto di Caspar David Friedrich, dipinto fra il 1830 e il 1835. Quando l’ho vista la prima volta, il mio cuore ha avuto un balzo di gioia. Con quest’ultimo libro, lo studio grafico dell’editore FrancoAngeli ha fatto una scelta particolarmente felice: felice perché l’immagine compendia alla perfezione il significato della mia opera.

Il tramonto è un olio su tela di piccole dimensioni oggi custodito presso il museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Il soggetto è suggestivo: due viandanti, due uomini vestiti con abiti di foggia tedesca tradizionale, appaiono giunti al termine del loro cammino. I due sono fermi: giunti ad un punto dal quale non è più possibile procedere, sostano affascinati dalla visione posta davanti ai loro occhi. Hanno di fronte la superficie del mare, confusa con fiordi e insenature e adombrata da nuvole che coprono con sottili venature il cielo e il sole che tramonta. Le tinte sono smorzate, tenui, salvo le silhouette nere dei due personaggi che campeggiano sull’intenso arancione del tramonto. Non c’è dubbio che il soggetto del quadro sia la caduta del sole oltre la linea dell’orizzonte e la meditazione che i due personaggi fanno di fronte ad essa.

Nato in Pomerania, a Greifswald, nel 1774 e morto a Dresda nel 1840, Friedrich visse una vita tormentata. Ancora giovanissimo perse la famiglia. Adulto, benché sposato con una donna innamorata da cui ebbe tre figli, non riuscì mai ad alleviare l’irriducibile sentimento di solitudine. Conseguiti importanti successi in una prima fase della sua attività, nella seconda fase la sua vita cominciò a scivolare sulla ripida china di un irreversibile declino. Gli venne rifiutato il professorato all’Accademia di Dresda, cui teneva tanto, e le commissioni diminuirono. Il crollo successivo fu drammatico. Friedrich passò i suoi ultimi vent’anni pressoché ignorato, in miseria, sopravvivendo con la famiglia grazie alle collette degli amici e dei pochi residui estimatori.

Il tramonto è un’opera di questa fase tragica, in cui l’autore, amareggiato e immiserito, fu affetto da gelosie paranoidi e manie di persecuzione. Cominciata nel 1830 l’opera fu terminata nel 1835, cinque anni prima della morte, avvenuta per le conseguenze di un infarto. Vi si respira uno struggente sentimento di impossibilità e allo stesso tempo il fascino di una sfida ai limiti dell’umano. Laddove non si può procedere – sembra dirci il dipinto –, laddove il corpo è impossibilitato ad agire e i sensi scoprono la propria impotenza, estenuandosi in una visione che non riescono nemmeno a definire, là c’è un punto limite grazie al quale l’anima si scopre ambigua e scissa. La mente, che si percepiva limitata nelle sue aspirazioni, d’un tratto sa di vivere in due mondi: perché proprio grazie al sentimento del limite scopre la fantasia e prende atto del suo spazio illimitato. Tutto allora diventa duplice. l’Io è consapevole sia di non poter padroneggiare il mondo esteriore, sia che lo stesso mondo esteriore non gli è più sufficiente; ed ecco che un’ombra gli si affianca. Laddove tutto era limitato e stretto dall’angoscia, uno sdoppiamento lo rende molteplice, un’ombra lo fa apparire infinito. Quest’ombra è la fantasia, che supplisce tanto all’impotenza dell’Io quanto a quella del mondo.

L’Io è ora duplice: mormora, dialoga con se stesso; ma anche il mondo è duplice: sembrava piccolo e stretto ed ecco che sfuma da ogni lato, moltiplica i suoi orizzonti. A quest’ora della sera, quando il giorno e la notte vivono l’uno accanto all’altra e talvolta è possibile vedere il sole che tramonta e la luna già alta in cielo, a quest’ora il Doppio si mostra. Il Doppio – l’alter ego del nostro corpo fisico – nega l’Io primario: ora un secondo Io gli si oppone punto per punto, un Io che sembra esistere solo nel desiderio e nella fantasia: riprendendo una definizione di William Butler Yeats, ho chiamato questo secondo Io Io antitetico. La funzione del secondo Io è di raccogliere le emozioni discordanti e di immaginare un mondo alternativo: il Mondo antitetico, un mondo opposto, sfuggente, inattingibile dalla coscienza e perciò libero. Dunque, Caspar David Friedrich sembra dire, in questa sua opera tarda come in altre opere della stessa epoca, che la libertà umana non si concretizza nel reale; il suo spazio è nell’immaginazione.

Quando Friedrich aveva tredici anni, mentre pattinava, il ghiaccio gli si infranse sotto i piedi: precipitò. Fu salvato dal fratello Johann Christoffer, che però perse la vita. Possiamo supporre che il ricordo del fratello non l’abbia mai abbandonato. Possiamo supporre che l’abbia accompagnato per il resto dei suoi anni, fino a rappresentare il suo Io antitetico e a suggerire, con la sua sola presenza, l’esistenza di un Mondo antitetico, il mondo della fantasia, mediato dal mondo dei morti. Se i morti non sono “qui” fra noi, essi sono “là”, dove giacciono tutti i desideri, i sogni e i progetti mai realizzati.

La mia ipotesi circa il significato del quadro è che Caspar David, ossessionato dalla privazione degli onori che sapeva di meritare (fino al punto di immaginare che la stessa moglie potesse essergli sottratta da qualche volgare seduttore), si alienò dalla vita coi suoi simili. Infine si spinse a vivere del tutto in un “al di là” ultramondano, in quella zona di mezzo tra la vita e la morte, tra il reale e l’immaginario, dove i volti – cioè le identità sociali – si negano e si cancellano e dove, come i due personaggi del quadro, si resta in estasi a contemplare il trapasso definitivo del mondo.

Il quadro di Friedrich lascia trapelare un sentimento di aggressione e di rifiuto nei confronti del mondo reale ben rappresentato dalla passeggiata con il personaggio oscuro (forse un morto, forse un sosia di se stesso) e dal sopravvenire del buio, che insieme suggellano la cancellazione definitiva dell’esistenza altrui. Tutt’intorno c’è un deserto di cui non si percepiscono i limiti. Forse, gli esseri umani sono tutti scomparsi, certamente non ve ne sono altri nella visione dipinta. Domina la morte, ma soprattutto la morte degli altri.

Questa mia ipotesi può essere avvalorata dai versi che seguono, scritti da Friedrich in un momento di autoanalisi: «Perché, mi son sovente domandato, / scegli sì spesso a oggetto di pittura / la morte, la caducità, la tomba? / E’ perché, per vivere in eterno / bisogna spesso abbandonarsi alla morte». L’artista si domanda perché la sua ispirazione sia stata così spesso attratta dall’idea della morte e si risponde che la morte gli suggerisce l’Eternità: un tempo-luogo sacro opposto alle banali e deludenti contingenze del mondo sociale. Dunque, tracciata la linea che separa la vita dalla morte, l’artista ripudia il mondo sociale reale, il mondo dei vivi, e si colloca nel mondo antitetico dei morti, forse in contatto con la sacralità di Dio, certamente accanto ai grandi artisti del passato, morti e collocati nella dimensione fuori del tempo dell’ideale.

 

Lo spirito tragico di Giacomo Leopardi

Di questo sentimento di ripudio aveva già parlato, da par suo, Giacomo Leopardi.

In un frammento scritto nel 1819, l’Idillio V, intitolato Odi, Melisso (detto anche Lo spavento notturno) il poeta mette in scena un breve dialogo (anche qui, come nel quadro di Friedrich, due uomini, due amici, stanno l’uno accanto all’altro). Nel dialogo, Leopardi, per bocca del greco Alceta, racconta un sogno, annotato nello Zibaldone e datato al giugno del 1819, quando aveva ventitré anni. Tra i vari abbozzi e spunti annotati sotto il titolo di Argomenti di idilli, ce né uno che porta quella data e contiene questa frase: «luna caduta secondo il mio sogno».

Ecco il dialogo:

*

*

ALCETA

Odi Melisso; io vo’ contarti un sogno

Di questa notte, che mi torna a mente

In riveder la luna. Io me ne stava

Alla finestra che risponde al prato,

Guardando in alto: ed ecco all’improvviso

Distaccasi la luna; e mi parea

Che quanto nel cader s’approssimava,

Tanto crescesse al guardo; infin che venne

A dar di colpo in mezzo al prato; ed era

Grande quanto una secchia, e di scintille

Vomitava una nebbia, che stridea

Sì forte come quando un carbon vivo

Nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo

La luna, come ho detto, in mezzo al prato

Si spegnea annerando a poco a poco,

E ne fumavan l’erbe intorno intorno.

Allor mirando in ciel, vidi rimaso

Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia,

Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa,

Ch’io ne agghiacciava; e ancor non m’assicuro.

*

*

MELISSO

E ben hai che temer, che agevol cosa

Fora cader la luna in sul tuo campo.

*

*

ALCETA

Chi sa? non veggiam noi spesso di state

Cader le stelle?

*

*

MELISSO

Egli ci ha pure tante stelle,

Che picciol danno è cader l’una o l’altra

Di loro, e mille rimaner. Ma sola

Ha questa luna in ciel, che da nessuno

Cader fu vista mai se non in sogno.

*

Alceta racconta all’amico Melisso un sogno terribile: incredibilmente, la luna è caduta in terra, è solo un piccolo astro fiammeggiante della dimensione di un secchio, venuto a morire fra noi. La palla rotolante schizza e sputa fuoco, è assurdamente piccola e sta per spegnersi per sempre. In cielo, al suo posto, è rimasto un orribile vuoto, come di un’orbita privata del suo occhio. Ascoltato il racconto, Melisso non ne è affatto impressionato e con cinica ironia contesta all’amico che la luna è ferma in cielo da sempre e che quindi l’idea che possa cadere è semplicemente ridicola. Il sogno di Alceta viene dunque respinto da Melisso come insensato. Dobbiamo pertanto immaginare che il giovane Giacomo abbia provato a fare la stessa cosa, a respingere il sogno come una fantasia assurda, senza però riuscirci del tutto: il sogno gli è a tal punto rimasto impresso che ha dovuto trasferirlo in una poesia: per “domarlo” ma allo stesso tempo per non dimenticarlo.  

Il dialogo è tanto misterioso quanto bizzarro: perché Leopardi, di solito così parco di immaginazione fantastica, mette in versi un sogno? La scena onirica deve averlo colpito a tal punto da spingerlo a creare qualcosa che nella sua produzione è insolito, anzi pressoché unico.

Poniamoci delle domande. Chi sono i due personaggi? Cosa rappresentano nella psiche del poeta? Nel dialogo, Leopardi dà innanzitutto la parola all’inconscio, che gli si è manifestato in un sogno, anzi un incubo. Per bocca di Alceta, l’inconscio racconta che l’astro notturno, rivelatosi come una finzione, è rovinosamente caduto lasciando il cielo orbo di sé. Per contro, con Melisso, Leopardi dà voce alla sua coscienza razionalista, che lo costringe a mettere al bando tutto ciò che appaia una mera fantasia.

Ecco, anche nel misterioso dialogo leopardiano possiamo scorgere una dualità. Da una parte c’è un Io primario, Melisso, che descrive un Mondo primario nel quale imperversa un realismo superbo e derisorio: la luna è e resterà sempre lì, a illuminare la vanità dei desideri. Nel mondo di Melisso (cioè della coscienza razionalistica di Leopardi) domina un Super-io crudele, che imprigiona e tortura nel suo miasma notturno la folla assoggetta delle speranze. Dall’altra parte c’è un Io antitetico, Alceta, che racconta di un Mondo antitetico nel quale quel Super-io è scalzato dal suo trono e reso orrendo e allo stesso tempo ridicolo nella sua tragica caduta e nella sua prevedibile morte.

Ora il dualismo dei personaggi è chiaro; meno chiaro è l’oggetto: la luna. Cos’era dunque la luna per Leopardi?

Secondo l’interpretazione critica più corrente, piuttosto banale, Leopardi adoperò la luna per rappresentare la Spes, la Speranza, l’ultima dea. Per quanto ciò coincida con certe affermazioni dello stesso Leopardi – colto in una sorta di “compiacenza” – io resto perplesso: se di speranza si tratta è una speranza ben strana: non un indice della fantasia messo al servizio dell’azione, bensì una chiarezza spietata che con ferrea coerenza illumina desideri che non si realizzeranno mai. La luna leopardiana non dà vita a fantasie possibili: mostra crudelmente un cimitero di desideri in agonia. Ebbene, secondo la mia interpretazione, nella mente di Leopardi la luna è il simbolo onnipotente del gelido realismo che gli impedì per tutta la vita di dare libero corso alla fantasia; più che una fatina consolatrice è una strega che incanta e paralizza, una severa maestra che non tanto insegna quanto impone l’incrollabile certezza che i desideri non potranno mai altro che fallire. Il poeta che lacrima sotto la luna è l’artista sconfitto da una volontà negativa, la sua stessa volontà negativa, pietrificata in una posizione di reciproco rifiuto fra sé e il mondo.

Sul piano simbolico e mitopoietico, dietro i veli di questa luna possiamo veder trasparire un pantheon di antiche divinità greche e latine, di cui Leopardi fu raffinato conoscitore. Divinità suprema della sua religione atea, la luna celava dietro l’apparenza del suo volto naturalistico l’antica Selene, la femminile dea greca del sonno di morte. Nella mitologia classica Selene è spesso associata alla giovane Artemide, dea della caccia, votata a imporre la verginità a se stessa e ai suoi seguaci (e noi sappiamo che Leopardi rimase vergine) e alla vecchia Ecate, sovrana del mondo dei morti. Dunque, la “graziosa luna” che sarà la regina dei Canti conglobava in se queste tre tragiche divinità, la cui influenza consentiva a Leopardi di dare forma plastica alla figura centrale del suo immaginario: la volontà negativa, una spietata dea cacciatrice di illusioni, assassina di relazioni, allo stesso tempo artefice e vittima dell’armatura d’acciaio della sua tragica arroganza.

L’odio per il mondo era già cominciato quand’era giovanissimo: in una lettera a Pietro Giordani scritta a diciannove anni Leopardi annotò: «Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia». La fuga dalla cittadina natale fu tuttavia un fallimento: a Roma odiò la corruzione della Chiesa e il suo disgusto fu tale che rifiutò un posto presso l’amministrazione pontificia procuratogli da un amico e fu costretto a rientrare a Recanati. Poco dopo riprese i suoi vagabondaggi per l’Italia sperando in un approdo, ma invano: fu attaccato dal cattolico Tommaseo, che lo denigrò in numerose lettere private e dovette rientrare ancora a Recanati. Qui l’insofferenza per la città, da lui definita “natio borgo selvaggio”, aumentò, proporzionalmente all’avversione per i recanatesi (“gente zotica, vil”), che lo ritenevano un superbo, tanto che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, gli cantavano dietro canzoncine denigratorie del tipo: “Gobbus esto / fammi un canestro, / fammelo cupo / gobbo fottuto”. La sua opera nello Stato pontificio, di cui era suddito, ma anche nel Regno delle due Sicilie, fu proibita e boicottata. Le Operette morali subirono la censura da parte delle autorità borboniche, a cui seguì da parte dello Stato pontificio la messa all’Indice dei Dialoghi provocata delle idee materialiste ivi esposte. Leopardi così ne parlò in una lettera a Luigi De Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». «Potranno eternamente tutto…» Nella frase colpisce quell’avverbio, “eternamente”, come la condanna che viene dal suo stesso spirito notturno… 

La superbia che il mondo esprimeva nei suoi confronti non era minore di quella che gli apparteneva. L’odio si impresse per sempre nel suo cuore. La luna dei poemi dunque era la forma plastica, divinizzata, dell’esclusione del poeta da qualunque forma di amore non solo da parte del mondo ma anche da parte sua nei confronti del mondo.  

Non di meno, nel dialogo in questione, questa dea spietata, in forma di luna, è caduta, è “decaduta dal suo ruolo”. E la sua caduta è al tal punto stupefacente che è posta al centro del componimento. Se accettiamo il realismo del sogno e diamo per vero il cataclisma, allora il senso della visione onirica riportata da Alceta, è che la finzione suprema (l’“illusione giovanile” di cui Leopardi parla di continuo) è venuta meno. La luna, la dea della religione della solitudine e della sconfitta, la sorella di quel sole che illumina il triste mondo quotidiano carico di delusioni, la luna è solo una piccola palla infuocata, che abbiamo immaginato più grande e potente di quanto non fosse. Ora è caduta, come un misero trucco di teatro. Dall’orrido vuoto sembra poter sgorgare un caos senza fine. Ma ciò, ben al di là del significare il crollo definitivo del desiderio, indica piuttosto la distruzione del Super-io, di quel faro spietato che schiaccia il poeta sotto il suo mostruoso e ipnotico solipsismo. La certezza di questo Super-io – come ogni certezza ed ogni Super-io – è solo una finzione scenica che la mente antitetica può svelare e distruggere, ma al prezzo di scoprire che la psiche ha sempre al suo centro un vuoto abissale, il vuoto del non-Io, della “rivoluzione” dell’Io e del suo mondo, della fine e della rinascita.

Nel frammento di Leopardi il vuoto del cielo dimostra che il dolore tanto decantato della perdita delle speranze non è altro che una quinta teatrale: la vita avara e amara del poeta si mostra ora in tutta la sua falsità, come una pantomima: una sorta di inganno ordito dagli dei. Il messaggio del sogno è potente: «Guarda! Se vuoi, puoi essere libero da quest’occhio onnipresente che ti tiene sotto scacco e ti imprigiona in un mondo di desideri ridotti a una condizione spettrale!» Purtroppo, ben lungi dal far suo questo messaggio, il giovane Giacomo ne inorridisce , ha paura, si ritrae, e dà al cinico Melisso il compito di ripristinare il “buon senso”:«Taci! La luna sarà sempre lì e tu sempre sottomesso a lei, a sopportare nel buio l’agonia delle tue speranze». Il vuoto, da cui potrebbe sgorgare la libertà dalla prigionia e dal dolore è fonte di angoscia: Leopardi non ride del patetico mostro, non gioisce della sua detronizzazione, non capisce l’impulso rivoluzionario che ha generato il sogno. Rigetta la sua visione allucinata nello spazio di una bizzarria notturna, la fa deridere dal suo spirito caustico, e si consegna di nuovo e fino alla morte al suo dolore inconsolabile.

La terra di mezzo

Della vita di Friedrich abbiamo descritto gli elementi salienti: i lutti familiari precoci e la sensazione di essere l’indegno superstite di una strage; poi, in età matura, il voltafaccia del mondo sociale, che dopo averlo blandito lo abbandona a se stesso. Come dice un passo delle Mille e una notte «Rifiuta chi è rifiutato» e Caspar David si chiude in un cupo isolamento attraversato da lampi di paranoia. Rifiutato il Mondo primario e scivolato per i paesaggi del Mondo antitetico, un mondo di morti, Friedrich non trovò un passaggio che lo riconducesse al Mondo primario, alla realtà comune, dove poter condividere ancora la sua arte. Rimase prigioniero di una terra di mezzo. Morì relativamente giovane, a sessantacinque anni, senza mai aver fatto ritorno.

E Leopardi? La sua vita fu forse anche più tragica.

Tra il 1815 ed il 1816, solitario sin dall’infanzia nella villa recanatese, compiuti i diciotto anni, ripudiò il modello paterno – senza mai aver avuto una qualche forma esplicita di amore da parte della madre – e divenne ateo. Nel 1818 pubblicò il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, in difesa della poesia classica, e le due canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante. Fu colpito da una grave malattia agli occhi che gli impedì non solo di leggere, ma anche di pensare, tanto che più volte meditò il suicidio. Il rifiuto del Romanticismo a favore di un Classicismo intriso di una ferma fede laica di confessione razionalista e illuminista gli fecero cessare ogni rapporto col sogno e la fantasia, ma non col desiderio, che divenne da quel momento un rovello tormentoso. Ormai straniero all’umanità, si innamorò più volte, ma non fu mai corrisposto. Ebbe solo un paio di amici sinceri e fidati. Morì il 14 giugno 1837, a soli trentanove anni, per l’aggravarsi dei mali che lo affliggevano da tempo.

Orgoglioso come Dante, ma privo della sua salute fisica e soprattutto del suo coinvolgimento politico attivo, scelto il mondo sublunare della disperazione, nel quale dominava un Super-io spietato che mentre gli dava un’inflessibile forza morale allo stesso tempo lo torturava, non riuscì mai più a rientrare dal suo viaggio nella terra di mezzo. Morto, avrebbe potuto essere riconosciuto come l’Io antitetico della cultura italiana, cattolica e provinciale, ma venne rinchiuso dai critici nella favola beffarda del povero storpio infelice a causa delle malattie e della bruttezza.

L’eclissi dell’anima è dunque pregna di rischi. Come Leopardi si può inorridire della finzione mondana che si vorrebbe abbattere, ma senza sapere con cosa sostituirla; oppure, come fa Friedrich, ci si può esiliare dal mondo sociale sostando nel mondo dei morti e dell’immaginazione, per essere completi in se stessi, lontani per sempre da ogni scambio con gli altri esseri umani.

Gli errori dei grandi ci insegnano molto. Rimane prigioniero della terra di mezzo chi commette l’errore di rifiutare l’inconscio e di rinserrarsi in una coscienza esclusa dal mondo della condivisione. Si esce dalla terra di mezzo in due modi: ignorando la lusinga ipnotica della meta, consapevoli che la meta è in realtà il percorso stesso, il quale è già in atto; e godendo sempre ad ogni istante dell’immensa libertà del momento presente.

L’eclissi dell’anima si può vivere davvero male; ma si può anche vivere bene: con la certezza che, nonostante sembri inghiottito da una divinità infera, il sole tornerà a splendere, e lo farà su un mondo che noi, persistendo nell’esistere, saremo riusciti a fare nostro.

 

 

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