Parola d’Autore
Prima di andare, venuto alle stampe per La Vita Felice nel 2016 è un lavoro poetico che si interseca alla prosa. Infatti, è composto da cinque lettere e da trentanove poesie in cui la narrazione invoca e cerca di recuperare la memoria attraverso l’amore. È una donna anziana a parlare. L’interlocutore è il tu/uomo/mondo che recupera l’ineffabile interpretazione del tempo che scorre inesorabile e che porta via la stessa vita, la sua fragile interpretazione. Ricordare e dimenticare: le due azioni intrecciate in queste pagine in cui viene deviato il percorso personale/affettivo per compilare un reportage universale attraverso una semplice, commovente vicenda d’amore. La morte, la malattia mentale, la dimenticanza sono tutti avvertimenti di temporalità; solamente l’amore può suggerire l’affidamento alla continuità ricomponendo il filo culturale che lega il futuro al presente e, ancor più, al passato.
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Non devi restituirmi la difesa
appuntire collera tra me e te
riparare nelle mani a forma di cuore
tutti i pensieri belli e tristi
che raccontano beltà sbarazzine,
non devi sbattere porte per dimenticare
il mento alzato agli uomini che ho
baciato. Non maledire
le parole dei poeti che mi hanno
voluta in sposa e poi copiata.
Non devi perdonare i dubbi di Romeo
il suo Pater Nostro in ginocchio
bruciato nelle lettere perfette
mai spedite. Che fatica
aprire gli occhi e trovarsi attorcigliata
sembrare un tuono, lunga, un fiume stretto.
Vedersi seminata, vangata
un miscuglio di quesiti spalancati.
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Quando mi dicesti: «Sei nata qui,
sotto la tempesta di sfere aderenti,
nella mammella dai grandi occhi neri,
neri di pietra e vetro» – vestita di pianura –
io ero seduta fuori, qui fuori.
L’ombra tagliava le parole, il colle nella punta dello spillo
lì, il mio Atlantico innaturale e ingannevole moriva
blu intenso.
I sintomi della nuova estensione non pensavano alla morte
ma al cuore chiaro, ai segni dell’amore che ogni volta accade
essenziale, irregolare e malgrado il fondo
identifica la venatura di un sussulto.
Misuriamo pena e ghirigori sbiaditi tra i piedi:
il mare esplora figure sospese
nelle branchie dei pesciolini e non li tralascia.
Avevo la gonna bagnata, appesantita,
pendeva di lato, girava nella corrente, si distendeva
sono così quando mi arrendo.
Sono nata qui, in questa trasparenza, raggio,
un’acqua chiara, midollo, sorgente,
valle intera, discesa di ore
che ritorna, una tregua.
Risalgo adesso rivolta d’aria.
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Si mantengono così gli autunni passeggeri
gli sforzi pericolosi e senza amore
fatti di capigliature arrangiate
giovinezze spettinate, sognanti e rossicce
tenerezze dischiuse, vissute per anni
nel volo delle rondinelle sciocche e felici.
Che strano effetto saperti audace
quando soppesavi l’anticipo della natura
i mesi settembrini, le speranze nelle piume
ritornate selvagge ogni volta incuneando
gli anni, l’attesa dello sciame irresistibile
esiliato nel cuore, nel greto della voce
in cui si rifletteva un’altra fibra pallida.
Chi può dirlo dove ti ho mischiato, cullato,
doppiamente rotto, vestito e ricomposto
nascosto in un fazzoletto di lino, piegato e profumato.
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Ricordo gomiti scorticare
il lino consumato e lo sconcerto,
la coperta rossa, il mio cognome
piagnucolato ad alta voce
nell’imbuto di tutte le colpe.
Non saresti più tornato l’omuncolo
sottile dalle braccia oracolanti
dai fianchi stretti e solidi, raddoppiati
nei momenti malfermi.
Ti smaschera la polvere sotto
le unghie, il trabocchetto senza enigma
l’alterazione della lontananza
che scambia le stagioni, lo sbattere
delle finestre. Scorderai tutto con zelo.
Con la bava della grammatica amorosa
cucirai i tetti e le infiltrazioni
delle pareti scomode. Porterai
i fiori alla mia tomba
dove non sarò morta, non sarò morta.
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Potessi farti ancora l’amore, contagiarti
nei mesi che verranno, ammalarti di me
sbriciolare nella spirale del vialetto
e sparire nella folla del mercato.
Giurare a tutti i ciottoli che incontro
di non dimenticarti
pregare Dio senza una fede, senza regole
e precetti, né difesa: potessi chinarmi e
diventare collina schiusa
ammorbidirti nell’erba concimata
in modo mostruoso, oscurandomi
senza dire, fino alla cima dell’aria
dove si regge il Cristo e la discesa.
Inchiodarti al silenzio, sperare
la gloria eterna
per essere fiera di essere nata
come un bocciolo incastrato nel roseto
guardando in alto, alla volontà del cielo.
È proprio in mezzo al cuore che mi si
ammassano domande, brividi, la paura.
Chissà chi ero prima,
se ho parlato troppo, a chi ho creduto,
chi ho invecchiato nel sangue
pensando che il mondo mi tenesse.
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Dalla Quinta lettera
(…) Devo averlo scritto da qualche altra parte quell’emozione, l’ebbrezza del vento tra i capelli, la canzone che ti cantavo sul collo e i baci, quanti baci incollavo alla tua maglietta bianca. Ingoiavo i moscerini, sì, ne avrò mangiati alcuni. «Le lucciole, vorrei ingoiare due lucciole per portare dentro la luce di questi posti!» ti urlavo nella nuca. Ecco, queste sono le ore vissute e stese nel mio tempo. «Quando non ci sarò più schiarisci la voce e canta. Pensa che ogni corpo e respiro ha avuto un dolore, un sonno, una spiegazione gentile. Sappi che la gente ha guardato le stelle, ha amato i fiori ed è stata felice. Ogni estate è arrivata dopo un lungo inverno» mi ripetevi scherzando sul tempo che ci avrebbe visti morti, ormai finiti, lontani. (…)